Abbandoniamo per queste poche righe i temi locali e parliamo di quello di cui parlano tutti, della pandemia e della crisi sanitaria che sta attraversando il mondo dopo aver spazzato in primis la Bergamasca. Un triste primato, non casuale però per una terra che sarebbe provincia, ma ha più collegamenti con il mondo di tante metropoli.
La circolazione del virus non si è interrotta ma è sicuramente limitata, la virulenza, soprattutto, non è che un sbiadito ricordo confrontata con quella degli ultimi giorni di febbraio e dei primi di marzo scorso. Ci avevano detto che il caldo stendeva il coronavirus, ma a giudicare dalla progressione nel resto del mondo direi che la teoria perde buona parte del proprio fondamento. Quantomeno quando non accompagnata dalle necessarie misure di salute pubblica, che ben abbiamo sperimentato in prima persona. E’ pur vero guardando gli Stati Uniti che, anche in presenza di una progressione dei contagi simile a quella del marzo scorso, la mortalità non è più paragonabile. Forse dall’esperienza di quelle tragiche settimane di Bergamo, Madrid e New York la medicina ha tratto importanti lezioni. Per fortuna.
La preoccupazione maggiore, parlo a titolo personale ma credo di interpretare abbastanza bene il pensiero dell’uomo qualunque, è quello di arrivare all’autunno senza farsi trovare impreparati, consapevoli tutti di non poter reggere un’altra ecatombe come quella sperimentata. In termini di vite umane, ma anche di lavoro, reddito e produzione. Riuscire cioè a coniugare la salute pubblica, la risposta ospedaliera e l’esigenza di non fermare l’attività economica. Mica facile!
Infatti non essendo facile in Italia l’opinione pubblica, imbeccata dalla politica e dai media, discetta se siamo oppure no in uno stato di emergenza. Come se un dato giuridico potesse cambiare davvero qualcosa rispetto ai dati di realtà. Così da una parte abbiamo il governo che rivendica l’esigenza di mantenere lo status di eccezionalità, mentre nel contempo lascia cadere ogni norma di distanziamento sociale sui mezzi di trasporto pubblico. Attenzione: sarebbe una bellissima notizia di per sé; solo fa a pugni con i proclami di uno stato di crisi incombente. A cosa credere?
Forse alle opposizioni, per cui il virus è morto, come sostenuto anche da medici italiani blasonati e riconosciuti a livello nazionale, e non serve più quasi alcuna precauzione. Salvo poi preoccuparsi come si trattasse di una minaccia mortale per poche decine di migranti positivi, quasi potessero da soli contagiare in un baleno una popolazione sana e forte che nulla ha più da temere dalla pandemia cinese.
C’è molta confusione ed è così fin dal primo giorno in cui la notizia della malattia è giunta dalla Cina. Il rumore di fondo dell’informazione e dei social tipici degli ultimi anni è amplificato a dismisura e non aiuta nessuno a fare qualcosa di utile. La vera emergenza è discutere se siamo oppure no in mezzo a un’emergenza. A febbraio quando l’abbiamo capito era già troppo tardi, forse oggi siamo ancora in tempo. Per discutere delle scuole, delle università, delle fabbriche, degli uffici, degli autobus e dei treni, cioè decidere come vivere più normalmente possibile il prossimo autunno. Per dare una risposta tedesca insomma, una volta tanto e senza andare troppo lontano.