Si associa di solito Levinas alla tematica dell’Altro che sembra oggi un pensiero diffuso nei discorsi filosofici e non solo. Si ripete che bisogna accettare l’altro, il diverso, lo straniero, il profugo.
E così facendo lo si riduce, secondo Levinas, a stucchevole buonismo. Il suo messaggio è più forte e dice: “L’io è responsabile della persecuzione che subisce”. Echeggia l’altra frase di Dostoevskij: “Ognuno di noi è colpevole davanti a tutti per tutti e per tutto ed io più degli altri”. Nella mia responsabilità è il senso della mia soggettività.
Eppure Levinas in quanto ebreo fu deportato in un campo di concentramento e perse per la stessa ragione quasi tutti i parenti. Ha conosciuto bene il volto del carnefice.
La sua vita attraversa le tragedie del ‘900. Nacque in Lituania (1905), studiò la tradizione ebraica, ascoltò le lezioni di Husserl a Friburgo, poi fu allievo di Heidegger, ma scrisse le sue opere principali in tarda età (Totalità e infinito, 1961, Altrimenti che Essere, 1974).
Siamo soliti pensare alla filosofia che parla di Essere; perché Levinas sposta l’attenzione sull’Altro? Il cuore della filosofia sembra essere la Metafisica, parlare di altro o degli altri è materia morale.
Platone nel dialogo Il sofista, dice Levinas, compie il cosiddetto parricidio nei confronti del maestro Parmenide accettando il divenire e cercando in qualche modo di spiegare il non-Essere, cosa assolutamente inconcepibile per Parmenide. Così Platone introduce il tema dell’Altro a proposito del divenire: parlando della negazione (non-essere) dice che non intendiamo sempre e comunque l’opposto, ma semplicemente il diverso. “Quando diciamo non-grande possiamo intendere piccolo piuttosto che l’uguale”. Così facendo Platone apre la strada per parlare dell’Altro ma poi tutto torna all’Essere, e l’Altro sfugge ancora.
Può spiegare questo passaggio: perché l’Essere vince, a svantaggio del pensiero dell’Altro?
Noi siamo abituati a vedere la relazione tra due cose come un passaggio da una all’altra e viceversa, o pensiamo un conflitto tra due persone guardandolo da fuori, o definiamo una situazione concependola in base a regole che la definiscono. C’è sempre un terreno comune su cui ci si muove, come il linguaggio ci consente di parlare del gioco. Si dice: questo terreno, questo linguaggio, queste regole sono l’Essere, l’Essere è il piano comune che accomuna me e l’Altro. Ma così facendo distruggiamo l’alterità dell’Altro.
Ma il terreno comune è ciò che risolve il conflitto. Se tu sei di una certa religione e io di un’altra ci possiamo incontrare in uno stato laico, con delle regole comuni che valgono per me e per te. L’altro in fondo mi assomiglia.
E tu sbagli, ribadisce Levinas. Lo stesso non è l’altro, anzi si contrappone. Per parlare dell’Altro io devo mettermi con tutti i due piedi nell’unica mia sola posizione. Allora posso parlare dell’Altro e la distanza rimane. “L’eterogeneità dell’Altro è possibile solo se l’Altro è altro, ed io devo restare io”; “io non sono relativo e ciascuno è io; l’io deve restare io in modo assoluto”; “l’io non può abbandonare la parte dell’io e prendere il punto di vista dell’Altro”; “lo Stesso parla per se stesso e l’Altro resta fuori dallo stesso”.
La filosofia non ci ha abituati al conoscere che arriva ai confini dell’universo e abbraccia qualsiasi cosa?
La conoscenza si rapporta al mondo fagocitandolo, come il nutrimento. Attraverso il cibo assimilo e mi rinvigorisco; trasformo l’Altro in me e l’Altro diventa la mia energia, il mio godimento. La filosofia occidentale avrebbe dovuto parlare di più del mangiare ma si è fermata all’”io penso”. Guardiamo alle parole sapere/ sapore hanno la stessa radice. Quando l’alunno non sa la lezione il professore gli dice: “questo non l’hai digerito bene, l’hai poco assimilato”. La conoscenza fagocita l’Altro.
Nel racconto di Platone nel Simposio si parla dell’uomo e della donna che erano in unità e che Zeus ha diviso perché l’uomo così era troppo potente e da allora l’uomo va alla ricerca della sua metà. Qui l’Altro sembra un tornare a se stessi. Non sembra un modo di vedere l’amore come ricerca dell’anima gemella, di chi mi assomiglia in tutto?
Levinas sconfessa la visione dell’amore come ritorno a casa, nostalgia della terra natale, sentimento che acquieta la nostra incertezza. Lui parla di amore desiderio che ci porta fuori, ci fa cercare, obbliga a muoverci, a partire. La responsabilità per l’altro non deriva dalla giustizia di persone uguali, che detengono diritti e doveri, ognuno chiamato a fare la sua parte. La responsabilità per Levinas è una relazione asimmetrica; io sono chiamato dalla situazione. “L’io è chiamato a una responsabilità davanti all’esperienza bruciante del male. E’ una responsabilità che disfa l’io e che fa responsabile di ciò che non è io. Solo così si potrà cominciare a parlare dell’Altro”.
a cura di Mauro Malighetti (da una lezione di Stefano Bancalari, Roma La Sapienza, 2015)