La filosofia si è accompagnata agli inizi con la meraviglia, bisogno di capire e di raccontare la realtà che né la chiarificazione concettuale (Aristotele) né la verosimiglianza del racconto possono soddisfare. Questo sforzo è però destinato al fallimento: la filosofia non soddisfa alle domande di senso dell’uomo di oggi, non c’è rimedio alle paure che nascono davanti al mistero della vita, del dolore, della morte (Severino).
Già Eschilo avvertiva l’inutile tentativo dell’episteme (scienza) per liberare l’uomo dall’angoscia. L’uomo non può possedere con la propria tecnica il mondo. Il pensiero moderno mette in crisi questo legame tra filosofia e meraviglia che aveva funzionato in passato attraverso un suo illustre rappresentante: Cartesio. Con lui c’è un mutamento di paradigma perché orizzonti nuovi impongono un pensiero filosofico diverso. Cartesio enuncia un’operazione di epoché o sospensione di giudizio, alla semplice, ingenua meraviglia sostituisce il metodo. Occorrono regole nuove della conoscenza, quelle delle scienze, per spiegare il mondo, una nuova episteme e una nuova ontologia.
Alla fine dell’Ottocento il legame tra filosofia e meraviglia si spezza definitivamente. Il mondo si è fatto complesso, si moltiplicano i punti di vista, dubbi ed incertezze si espandono e impongono.
Baudelaire costata che nella città metropolitana il reale ha finito di stupire, tutto si fa banale, ripetitivo, povero, oscuro, malsano e puzzolente come di una città senza fogne. La natura si ribella, diventa matrigna e cattiva. Secondo Baudelaire, il poeta maledetto e dello scandalo, noi possiamo dar senso alle cose con l’immaginazione. L’arte e la poesia ci permettono di trarre l’eterno dalla contingenza, il che è di qualcuno non di tutti. Il pittore della vita moderna è il dandy, colui che sa trasformare e trasfigurare la realtà, che è nella folla ma che dalla folla si distingue e sa “far fruttare la natura”. “Il dandy è l’ultimo bagliore di eroismo in tempi di decadenza”, e guarda il mondo nel giusto modo.
“Il mondo va guardato con occhi disincantati”, gli fa eco G. Simmel, sociologo. Alle soglie della Prima Guerra Mondiale (La metropoli e la vita dello spirito 1903) definisce l’uomo nella metropoli homme blasé, l’uomo dell’indifferente. Si abitua e così tutto si appiattisce, tutto diviene normale, opaco, indistinto. Non si meraviglia più. La bellezza non lo salva. Perde l’identità individuale, resta oppresso sotto il fardello della noia.
Husserl sul finire della vita (1938) e presago della tragedia imminente dirà che il sogno della filosofia come capacità di ordinare il mondo è finito.
Braudrillard si domanda: la televisione ha ucciso la realtà? Nulla c’è di autentico, ogni evento è ricostruito con il montaggio. L’uomo ha perso la trascendenza, i segni non hanno spessore, tra vestiti di marchio e mobili assemblati.
Dove cercare allora la verità? Non c’è speranza? Sì, se impariamo a guardare la realtà con occhi nuovi, come Vitruvio, l’architetto romano, sapeva vedere il dietro, oltre il simulacro, trovando nuove simmetrie, l’invisibile nella visibilità.
Merleau-Ponty dice che l’arte ci aiuta. Cezanne ha dipinto cento volte la stessa montagna in modo sempre nuovo. “Dobbiamo prendere in mano la nostra sorte. Dobbiamo recuperare non un orizzonte di spiegazione ma il tentativo di cogliere gli strati di senso del mondo con lo stesso lavoro laborioso che fu di Balzac, Proust, Valery, Cezanne, per lo stesso genere di stupore e di attenzione, per la stessa esigenza di coscienza, per la stessa volontà di cogliere il senso del mondo e della storia allo stato nascente”.
Sintesi di Mauro Malighetti della lezione di Elio Franzini all’auditorium Modernissimo di Nembro (5 aprile 2022) nell’ambito della programmazione di Noesis