Luciano Bianciardi è un altro di quelli dimenticato dai media, eppure ha scritto pagine importanti e profetiche della nostra letteratura: purtroppo per lui, ha anticipato e svelato prima di tutti i lati oscuri e gli inganni del “miracoloso” boom economico, rifiutandone i corteggiamenti ed onori che gli vennero offerti.
Luciano Bianciardi nasce a Grosseto il 14 dicembre del 1922, cento anni fa, nella maremma povera: nominato Direttore della locale Biblioteca Chelliana s’inventa il Bibliobus, un autobus con cui, assieme a Carlo Cassola, porta libri a operai, contadini minatori che diversamente non potrebbero leggere (oggi ci vantiamo del Piedibus cittadino.), e denuncia le condizioni di pericolo in cui lavorano i minatori di Ribolla, località nella piana di Montemassi, il luogo dove Simone Martini ritrasse Guidoriccio da Fogliano nel famoso affresco del Palazzo Pubblico di Siena. Era il 4 maggio del 1954 quando accade quel che Bianciardi e Cassola avevano appena scritto e denunciato in “Minatori in Maremma”. Si tratta della miniera di proprietà Montecatini, sede in Milano, che incurante delle elementari norme di sicurezza, esplode facendo 43 morti.
Luciano Bianciardi non accetta, parte per Milano per fare saltare “il Torracchione”, la sede della Montecatini. Vuole denunciare il lato oscuro ed ingannatore del boom economico in pieno corso, fondato sul lavoro senza sicurezza, sul lavoro precario, sui collaboratori esterni sottopagati (le attuali finte partiteiva) che sono “ … come uno che sta in terrazza quando tira vento e piove”, sul profitto ad ogni costo in cambio di un finto benessere. A Milano partecipa alla fondazione della Feltrinelli, la casa editrice di quel Giangiacomo rampollo miliardario che sta dalla parte degli operai e finirà fulminato sotto traliccio di Segrate.
Bianciardi si mantiene facendo “il traduttore a cottimo” di gente come Conrad, Faulkner, Bellow, Mailer, Huxley, ma soprattutto l’Henry Miller dei Tropici, il suo “Molinari Enrico” di New York: vive in una stanza al piano terzo al numero otto di via Solferino, zona Brera, che condivide con Carlone, quel Carlo Bavagnoli che poi diventerà il grande fotografo, primo non statunitense a fare parte stabilmente dell’equipe di Life. La stanza accanto se la dividono Mario e Ugo, due giovani che a loro volta faranno la storia della fotografia italiana: Dondero e Mulas. Tutti si ritrovano al bar delle Antille, quel Jamaica già frequentato dal primo Mussolini (socialista), e che diventa centro della cultura bohémien dell’epoca, una sorta di Montmartre milanese per giovani squattrinati dal grande talento in attesa del momento giusto.
Momento che per Luciano Bianciardi arriva nel 1962 (anno di grazia….) quando scrive “La vita agra”, il suo j’accuse rabbioso e lucidissimo contro il boom economico e Milano, suo emblema: è un successo, Montanelli gli offre un posto al Corriere e i soldi di cui ha maledettamente bisogno, ma lui rifiuta, s’arrabbia ancora di più, “Avevo scritto un libro incazzato e speravo che si incazzassero anche gli altri. Ed invece è stato un corteo di consensi, pubblici e privati, specialmente a Milano… Il mondo va così, cioè male…A nziché mandarmi via come meritavo, a calci nel culo, mi invitano a casa loro”.
Il capitalismo s’impossessa e depotenzia tutto grazie al giro di grana e danè, sempre soldi sono, ma la grana è quella che si prende, i danè sono quelli che si pagano. Se non fai la grana sei un ciula, lo impara subito anche un buttero maremmano. E fare la grana da precario o da collaboratore esterno è dura, non puoi nemmeno fidarti dei medici, perché non hai la mutua. Nel miracoloso boom tutto ruota attorno alla produzione. A Milano non ci sono gli operai, stanno in periferia; in città ci stanno il terziario e il quaterziario, quelli che non fanno produzione, è il regno delle “dattilografette con le gambette secche e la faccia smunta” e dalle “segretariette secche, senza sedere, col visino astioso e stanco” che riempiono i tram, e che quindi non si riescono quasi mai a prendere, come succede al rag. Ugo negli anni 70.
Luciano Bianciardi ha anticipato la mutazione antropologica di Pasolini guidata dalla tv e dal consumo, prima di Calvino descrive la compulsione da acquisto al bottegone nuovo stile americano (il supermarket), prima di Petri e Volontè denuncia che la classe operaia non andrà mai in paradiso perché, terminato il lavoro, rincaserà in fretta per travestirsi da ceto medio e andarsene al cinema o al bar, oppure al bottegone, arsa dalla febris emitoria con “la fila delle donnette chine come tanti polli a beccare in un pollaio moderno“. Bianciardi anticipa il servilismo dell’italiano medio rag. Ugo che subisce qualsiasi umiliazione dal megadirettoregalattico. Ad un certo punto gli starà stretta anche Brera, e la lascerà per andare in periferia, dove ci sono gli operai: del resto, come si fa a stare in un posto dove il capocellula della locale sezione pci fa il parrucchiere per cani? Il “radical chic” non era ancora stato inventato, ma lui già lo detestava. E poi l’esortazione ai giovani: “Lasciate perdere broletti, palazzi del governo e anche le università, ragazzi pensate alle banche”. E poi la televisione, “quella non va occupata, no, la televisione va spenta”. Grandioso
Intuisce le potenzialità di Jannacci, cui firma il primo disco, e soprattutto di Celentano e del «sorriso celentanoide, espressione emblematica del neoqualunquismo neocapitalista», cui pronostica che un giorno avrebbe lanciato «una filosofia totale intervenendo nei dibattiti come un intellettuale accreditato». Ha sbagliato qualcosa? Non integrato, è finito disintegrato, a soli 49 anni.
Non parlo della sua scrittura (un pastiche affascinante) e del suo amore per Risorgimento e Resistenza, traditi dal trasformismo di gattopardi e fascisti riciclatisi nelle nuove Italie, senza mai fare i conti col passato. Ci vorrebbe un’enciclopedia, ma è meglio non parlarne, non celebrare nemmeno il centenario, certe voci è meglio dimenticarle.
Da perfetto figlio del boom mi ricordo un Carosello, “Ma lei è incontentabile!” diceva un negoziante sfinito ad un cliente cui non andava bene niente, “Sempre!” rispondeva perentorio il cliente tuttodunpezzo accompagnato da famigliola muta: fin quando finalmente in un negozio compare il frigorifero Ignis, la signora acquista il sorriso e la parola per ordinare imperiosa “Lo voglio!”, e il marito diventa contentabile: ero poco più che un pistolino, guardavo quella pubblicità e non capivo cosa c’entrasse quel nome Ignis con quella favolosa squadra di pallacanestro di Varese. Per me i campioni da celebrare erano Dino Meneghin e Bob Morse, non il frigorifero. Non avevo capito niente. E continuo a non capire niente.
“CHI NON HA L’AUTOMOBILE L’AVRÀ , E POI NE DAREMO DUE PER FAMIGLIA, E POI UNA A TESTA, DAREMO ANCHE UN TELEVISORE CIASCUNO, DUE TELEVISORI, DUE FRIGORIFERI, DUE LAVATRICI AUTOMATICHE, TRA APPARECCHI RADIO, IL RASOIO ELETTRICO, LA BILANCINA DA BAGNO, L’ASCIUGACAPELLI, IL BIDET E L’ACQUA CALDA.
A TUTTI. PURCHÉ TUTTI LAVORINO, SIANO PRONTI A SCARPINARE, A FARE POLVERE, A PESTARSI I PIEDI, A TAFANARSI L’UN CON L’ALTRO DALLA MATTINA ALLA SERA.
IO MI OPPONGO”.
(Luciano Bianciardi)