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Da qualche settimana abbiamo lasciato l’inverno definitivamente alle spalle, anche se in montagna la mattina presto e la sera, quando tramonta il sole, oppure durante le giornate di pioggia, l’aria è ancora fredda e pizzica la pelle. Non è bastato il sopraggiungere della primavera, con le sue giornate più lunghe e le temperature decisamente dolci e miti durante il giorno, per uscire all’aria aperta, dove i nuovi germogli ci fanno toccare con mano l’evoluzione cromatica dell’abito vivace, indossato da boschi e prati, caratterizzato da una straordinaria tavolozza di colori verdi dalle molteplici tonalità.


La natura avanza nel suo ciclo stagionale, mentre noi siamo rimasti fermi, appesi all’ultimo grido dell’inverno, che ha minacciato la nostra salute e, più in generale, la convivenza civile e le relazioni di comunità. La primavera è la stagione preferita per le passeggiate, trasmette scenari nuovi e sentimenti di rinascita, ma noi siamo rimasti come rintanati nel chiuso delle nostre case, soprattutto chi vive nelle città, dove la densità abitativa rende più impegnative le regole del distanziamento sociale imposte dall’attuale politica sociale anti-Covid 19. In montagna tutto è molto più diluito e, chiusi i cimiteri, sospese le lezioni nelle scuole, impedite le celebrazioni delle Messe nelle chiese e abbassate le saracinesche delle poche osterie e rivendite rimaste, la popolazione è talmente ridotta che è alquanto difficile incrociarsi con altre persone durante le passeggiate. Si possono percorrere chilometri di strada, a piedi ovviamente, calpestando il tracciato di sentieri e mulattiere, senza incontrare nessuno.

Il bacino dell’Alta Valle Imagna, con il Resegone di fronte, visto da Ricudì.

Per quanto mi riguarda, soprattutto la necessità di dare una mano a mio figlio durante l’esecuzione dei diversi lavoretti agresti, connessi all’attività dell’azienda agricola nata in famiglia e condotta in prima persona da Francesco, mi ha consentito di mantenere vivi i rapporti con la natura rigogliosa e selvaggia di questo periodo, che sta riconquistando i suoi spazi e innalza al cielo il canto della resurrezione. I prati si preparano alla prossima fienagione, portando a maturazione una quantità incommensurabile di steli d’erba, che tra qualche settimana offriranno alla vista uno strepitoso tappeto di punte dorate, come quelle di un campo di grano. I pascoli e le selve castanili hanno accolto gli ultimi interventi di riordino e pulizia, quando i laboriosi ed eroici contadini della montagna hanno asportato i residui di fòia, stràm e bachècc che impedivano lo spuntare del nuovo verde. Dal suggestivo balcone panoramico di Recüdì, lo sguardo si espande nella conca dell’Alta Valle Imagna, circumnavigando il catino montano, dal colle di San Piro sino al crinale di Valcava, con il Resegone sempre vigile di fronte: un paesaggio mozzafiato, che spazia dal fondovalle alle nuvole; il catino dell’Imagna è costellato da campanili e chiese, contrade e case isolate, centri abitati e stalle a presidiare isole coltive sparse un po’ dovunque. Tutto è verde all’intorno, con una infinità incredibile di particolari e dettagli. Un paesaggio fluido e movimentato, ma allo stesso tempo rilassante e rassicurante. La valle sta lievitando e mi si presenta dinnanzi in piena fioritura. Lo stupore non ha limiti e si rinnova ogni qualvolta sguardo e pensiero si perdono in quello specchio di umanità. Quasi ogni giorno percorro la strada sterrata del Baghìna, un piacevole e soprattutto utile collegamento in quota tra i villaggi di Corna, Blello e Berbenno, per raggiungere la stalla colma di vacche e pecore, attraversando boschi di castagneti e faggete, prati e pascoli di monte: dopo ogni curva – ce ne sono tante in montagna – il panorama cambia, consente di cogliere ambienti differenti e non è insolito incontrare mucche, manze, pecore, asini e cavalli al pascolo, entro gli ampi recinti loro assegnati, vicini e lontani. Ambienti umani assai familiari, plasmati dal lavoro straordinario di uomini e donne pazienti e tenaci, che nei secoli scorsi hanno saputo, con grande energia, conservare e migliorare la Creazione. Percepisco lo spirito della loro presenza all’intorno. Sento ancora la forza dell’immane lavoro, a distanza di secoli, e mi è chiara la loro visione di territorio.

Tribulina religiosa in località Pradicù, sulla strada carrale del Baghina.

Quest’anno – sono certo – la natura si rivelerà provvida, pur nelle limitate quantità proprie di ogni luogo, per la sua capacità di generare ancora una volta una quantità di risorse alimentari, per molte delle quali purtroppo abbiamo perso tracce e conoscenze. Prodotti rinomati e dal gusto prelibato trovano nella conca valligiana terreno fertile per crescere spontaneamente. In questa stagione, cicorie e ortiche, malva, spinaci selvatici, tarassaco … sono ancora oggi ottimi ingredienti per minestre e frittate, risotti e insalate. Nonostante nessuno le coltivi, diverse piante ed erbe commestibili crescono in libertà nei prati e nei boschi, e, soprattutto nel passato, costituivano una risorsa alimentare importante per le popolazioni rurali. Tra circa un mesetto, poi, faranno la loro comparsa anche i funghi, un’altra componente del bosco e del prato. Le superfici ricoperte di alberi, anch’esse assai frazionate, hanno rappresentato, soprattutto in montagna, una sorta di forziere ricco di tesori, molti dei quali ancora sconosciuti o in attesa di essere utilizzati: aree suscettibili di essere trasformate in pascoli, selve castanili, anche prati, qualora si fosse reso necessario; riserve di selvaggina, ambiti privilegiati per la raccolta di erbe, piante e frutti spontanei stagionali; spazi per il riparo di uomini e animali, dove pure era possibile il prelievo del legname da fuoco e da opera, per il lavoro di rasghì e maringù, oppure per essere trasformato in carbone. Palestra di vita per la formazione e il lavoro di carbonai boscaioli. La raccolta di erbe e frutti spontanei spesso era affidata a bambini e ragazzi, i quali imparavano presto a conoscere e a sfruttare il loro ambiente di vita e contribuivano così, per certi versi anche divertendosi e stando in compagnia, al sostentamento del gruppo familiare, integrando la dieta alimentare quotidiana e ampliando la tavolozza dei sapori stagionali. Si diffondeva presto nel villaggio l’attesa notizia che gh’ìa ‘ntùren i spàres e piccoli gruppi spontanei di fanciulli, il più delle volte accompagnati da una donna adulta della casa, si organizzavano per le prime “battute” nel bosco. Raccolti a mazzetti, legati insieme col fil de rèf, la regiùra li avrebbe offerti al Ragiùna, il noto commerciante ambulante che, ancora verso la metà del scolo scorso, con la sua gerla sulle spalle, passava di contrada in contrada, nei villaggi dell’Alta Valle Imagna, per vendere i suoi prodotti (soprattutto per la casa) e ritirare le diverse merci (pellame, uova, asparagi, mazzetti di narcisi, burro,…). Con alcuni mazzetti di asparagi, öna dondéna de öv e ü pà de butìr, la provvida massaia, per necessità sparignìna, riusciva magari a scöntàs dét per vìga qualche metro di stoffa, dalla quale avrebbe ricavato bràghe e camise per i membri della famiglia. Aprile, in particolare, è sempre stato il mese della raccolta degli asparagi selvatici, una specie protetta e, in alcune aree, addirittura scomparsa.

L’asparago nel bosco.

L’asparago è un “ortaggio” davvero prelibato, soprattutto in una stagione ancora sprovvista dei frutti e delle erbe coltivati nell’orto, come anche i capelìne o i secòrgne raccolte nel prato, condite in insalata e consumate con i öv buìcc. Endà a spàres non è semplice ed è inutile improvvisarsi “ricercatori” per addentrarsi in qualsiasi bosco, poiché non si trovano dovunque e, in ogni caso, attualmente la raccolta non è più consentita. Bisogna prima conoscere innanzitutto le aree colonizzate dalle sparasére, ossia i luoghi abbastanza circoscritti popolati da questo generoso arbusto, che in molti casi – almeno quelli conosciuti da chi scrive – sono come nascosti nei boschi impervi e abbandonati, non coltivati, bene esposti ma poco riscaldati dai raggi solari, protetti da una folta vegetazione. Generoso è sempre stato il versante sulla sponda destra della Valle Rosagàt, come pure l’area boscata sotto la Còrna dol Somensì e lungo la bella mulattiera delle Pètole, dove nel passato ero solito addentrarmi. I spàres, caratterizzati in cucina da un sapore amarognolo, non sono altro che i germogli dell’asparagina, un arbusto dalle foglie piccole e spinose, che si staccano alla base del fusto. Gli amici di Mezzago, nel Milanese, li coltivano nei campi, fors’anche in serra, considerandoli così un vero e proprio ortaggio, e hanno saputo costruire, attorno all’asparago rosa (molto diverso da quello selvatico, sia nell’aspetto che nel sapore), dal gambo molto più grosso, un’importante economia di territorio.

Mazzetto di asparagi.

Il bosco è un grande “amico” per chi lo conosce, ma nasconde anche molti pericoli, perché si tratta di un ambiente assai particolare e ricco di insidie. Soprattutto quanti non conoscono il contesto da esplorare è bene che si facciano accompagnare e pure i montanari sanno che è buona regola avventurarsi nel bosco almeno in due. Non è fuori luogo munirsi di un bastone per battere il terreno dinnanzi ai propri passi, scuotendo le frasche, poiché potrebbe sempre capitare di imbattersi in qualche vipera. Gli asparagi, tra l’altro, sono ben mimetizzati nel verde circostante e il bastone serve anche per farsi largo tra il fogliame e le ramaglie, sotto i quali spesso si nascondono i piccoli arbusti tanto ricercati. Non solo, ma una volta individuati, gli anziani insegnavano ai fanciulli come fare per raccoglierli, estirpando correttamente il germoglio, ossia asportando anche la parte biancognola che sta sottoterra, per non danneggiare la pianta madre. I spàres non sono da confondere con i gratacüi, i rovi della rosa canina, e nemmeno con i spenaràcc, ossia i pungitopi, i cui germogli sono peraltro assai simili, una pianta anch’essa molto spinosa, così chiamata perché un tempo si metteva intorno a quelle cose che dovevano essere difese dai topi. Quest’anno non ho ancora avuto il tempo de ‘ndà a spàres, ma un caro amico, magnanimo, me ne ha regalato l’equivalente di due mazzetti, raccolti nei boschi dell’Alta Valle Imagna, che Mirella ha cucinato il giorno stesso col ciarighì, cosparsi infine con una ricca spolverata di formaggio grattugiato. Una delizia combinata di antichi sapori. Un vero diletto del palato, il cui gusto si è formato sulla tradizione gastronomica locale. Mia mamma preferisce invece cucinarli annegati nella panna e consumati con la polenta fumante nel piatto. Altri ancora utilizzano gli asparagi come condimento per prelibati risotti, utilizzando soprattutto la parte terminale dei turioni.

Uova e asparagi.

Dietro semplici mazzetti di asparagi si cela un mondo naturale, sociale e gastronomico assai particolare e la sua dimensione umana ci consente di percepire in modo consapevole la nostra collocazione nel tempo e nello spazio, in relazione alle molteplici relazioni instaurate con l’ambiente circostante dalle generazioni di valligiani che ci hanno preceduto. La vegetazione che ci circonda, di cui abbiamo perso diversi elementi di conoscenza, con i suoi caratteri di biodiversità, i sapori particolari offerti attraverso i prodotti commestibili che crescono spontaneamente nei prati e boschi,… ci consente di tenere sempre aperto un canale di comunicazione e di continuità con la nostra storia sociale e di ritrovare il gusto di ambienti e sapori ancora autentici, non mediati. Sapori di terra, di prato e di bosco. Sapori di conoscenza e di vita. Ambienti di casa nostra. Endà a spàres non è solo una passeggiata nel bosco per raccogliere i germogli prelibati, attualmente non più strettamente necessari per la nostra dieta quotidiana; si rivela però un prezioso viaggio nella storia della tradizione locale, quando i bisogni alimentari venivano soddisfatti non andando in bottega o al supermercato, bensì addentrandosi consapevolmente nel bosco e nel prato, nel castagneto e nel vitigno, nel campo e nel pascolo, dove ottenere col lavoro e la ricerca quotidiana il necessario per vivere. Endà a spàres, infatti, significa procedere nel bosco sempre chinati e in ginocchio, a rovistare con le mani nude tra il fogliame, gli arbusti e i cespuglietti spinosi che nascondono e proteggono il ghiotto alimento. Soprattutto quando il cibo era il frutto ottenuto dal lavoro diretto e personale, nonché della sapienza popolare, poiché chi conosceva i segreti delle erbe e delle piante che crescono nel bosco aveva una possibilità in più di sopravvivere, specialmente nei periodi di carestia…



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Autore

Antonio Carminati

Direttore del Centro Studi Valle Imagna

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