Il primo mondiale di calcio trasmesso in tv è quello del 1954, nel 1958 arriva Pelé e inventa il calcio brasiliano e riscrive quello mondiale, “Vavà, Didì, Pelé, tre brasiliani neri come chicchi da caffè”, una canzone del tempo che esprime la meraviglia dell’epoca di fronte ad un gioco che il Brasile trascinato da un minorenne ha trasformato in arte e spettacolo puro, balsamo per gli occhi e per le ferite della vita.
Pelè nasce nel sertao del Minas Gerais, deserto di pietra e radi arbusti, discendente degli schiavi rapiti in Africa dagli europei e deportati nelle Americhe per saccheggiarle delle loro ricchezze con le quali finanziare la Controriforma prima e la rivoluzione industriale poi. A 13 anni è un ragazzino che vive facendo il lustrascarpe e ha una passione matta per il calcio. Gioca con gli amici nella squadra dei “senza scarpe”. Quattro anni dopo, nel 1958, a 17 anni è un fenomeno del calcio.
Ai mondiali di Svezia stupisce il mondo, segna sei gol: due in finale contro i padroni di casa del barone milanista Liedholm. Il primo gol: op, stop di petto, sombrero sopra la cabeca dell’atalantino Gustavsson, e prima che la bola tocchi terra, la calcia in porta a fil di palo. “Gollassooooo”, grida esultante il compagno di squadra Altafini detto Mazzola, guadagnandosi in tal modo futuri contratti televisivi da commentatore per la TV italiana.
Il ragazzino nero discendente degli schiavi segna gol a raffica, tutti lo vogliono, diventa ‘O Rei e potrebbe palleggiare con il mondo come il grande dittatore di Chaplin. Nel 1961 il governo lo nomina “Tesoro Nazionale” per blindarne il trasferimento all’estero. Pelè ha solo 21 anni e il numero 10, in campo ed in pagella. Il resto sono numeri irrazionali, quelli che ci disorientano all’infinito, come fai a immaginare la radice quadrata di due? La guardi, meravigliato, e stop.
Le sue radici sono nell’Africa nera: Angola e Guinea i maggiori bacini di schiavi, Inghilterra e soprattutto Olanda i maggiori trafficanti, da quando Carlo V ha dato ai fiamminghi il monopolio del “diritto di fornitura” dei neri, “più facili da comprare che da allevare”, merce pregiata al punto da scatenare una leggendaria speculazione alla Borsa di Londra. Nelle vene di Pelé scorre la musica dal ritmo afro, sbarcata a Bahia, porto del Nordeste dove attraccavano le navi portoghesi in viaggio dall’Africa con il loro carico di “bestiame umano”.
Non è la samba che è arrivata dopo, ma la ginga, il passo base della capoeira, un’arte marziale che è mix di musica, danza, canto e lotta, una “brincadeira” (portoghese: gioco o divertimento) con la quale gli schiavi ingannavano i padroni riuscendo nel contempo a prepararsi alle rivolte, ed è focalizzata principalmente sull’uso dei piedi perché le mani degli schiavi erano incatenate. Ballandola ti diverti un sacco e stordisci l’avversario, unisci l’utile al dilettevole.
Pelè l’ha sempre ballata con entrambi i piedi e con la testa segnando 1281 gol ufficiali, il più irrazionale probabilmente nella semifinale del ’70 contro l’Uruguay: finta sul portiere in uscita ad incrociare la traiettoria della bola senza toccarla, aggiramento del portiere e calcio in diagonale ad incrociare il disperato tentativo del difensore che corre sul primo palo, mentre il genio del sertao lo beffa calciando sul secondo, quello lontano, a gonfiare la rete: radice quadrata di due+pigreco, e vendetta del maracanazo di 20 anni prima.
Nella partita successiva, la finale, segnerà il primo gol della vittoria verdeoro volando sopra la testa di Burnich che remava vanamente nell’aria. Ora il dez ha raggiunto il diez. Non so se sono vicini ad un Dio, sicuramente stanno con gli dei del pallone, o probabilmente lo sono loro stessi: di nuovo insieme. Hanno cambiato campo ma non usciranno mai di scena. Su di loro non si spegneranno mai le luci, nemmeno a San Siro. Per loro la fine non c’è, è soltanto un altro calcio d’inizio di “questa cosa che non sappiamo, questo conto senza gli osti, questo gioco da giocare fino in fondo a tutti i costi”. Obrigado dez.
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