Gioie al tempo del Covid. X puntata.
Mai e poi mai avrei pensato di trovare tanta soddisfazione durante le vaccinazioni domiciliari . Ecco la nostra piccola esperienza che ha distribuito tanta felicità alle persone e a noi 2 operatori tanta gioia.
Il lunedì 27 giugno 2022 è ripartita, grazie alla Fondazione Rota, la mia esperienza delle somministrazioni domiciliari (quarta dose per le persone fragili). Una premessa obbligatoria: l’anno scorso mi ero fermato alla descrizione di 9 trafiletti/racconti (li trovate tutti sotto) della mia esperienza anche perché si era esaurita la vena descrittiva e la Musa mi aveva abbandonato. Mi era sempre restato in animo la volontà di completare la decina delle storielle e avevo da sanare un debito di amicizia e grande affetto verso un personaggio storico di Almè: ÒL CÈA; lo saldo adesso ben volentieri e gli dedico tanto tempo e spazio.
Chiunque viene ad Almè e chiede del Cèa a qualsiasi persona doc del paese e anche a tantissime non indigene, con certezza avrà una risposta/parere (positiva o negativa o canzonatoria) ma comunque una risposta di conoscenza. La stessa cosa (vi parrà strana ma provate) non avviene se chiedeste del reverendo Parroco, del sig. Sindaco, del Farmacista o del dottor Valerio Albani Rocchetti. Perché questo? Perché ól Céa a l’èl Céa: basta la parola.
Incominciamo a scoprire l’etimologia del nome e allora si parte dalla mamma Pierina che ho conosciuto direttamente essendo stato per lungo tempo loro medico di famiglia. Il nome di battesimo è Cesare, la mamma affettuosamente lo chiamava Cesarino nonostante fosse sempre stato un bricconcello vivace, molto scatenano, pestifero: un vero enfant terrible. Poi nel tempo il nome veniva diversamente pronunciato e storpiano in Ciaìno, Céìno e finalmente Céa. In paese e nei paesi limitrofi quando si parla di Céa si intende certamente il Cesare/Cesarino/ Ciaìno/ Céìno ma anche tutto il gruppo famigliare e casato (patronimico) e ne discende che sia ovvio che la moglie è anche chiamata Ciaìna/Céìna e le 2 figlie Ciaìne/Cèine, mentre i 2 figli solo e rigorosamente Céa. O al massimo figlio del Cèa.
Ho conosciuto ól CÉA quando ancora ero bambino (penso verso i 6/7 anni) e lo ricordo come persona energica, simpatica, grintosa, lessico sui generis sempre in movimento, taglia media, capelli nero corvino, magro con muscoli tonici, mani sempre lorde per il lavoro, con una caratteristica inconfondibile e indelebile: ól nás. Naso camuso e contorto come pochi da esito di scazzottata amichevole in oratorio. Se ól Céa non avesse questo naso non sarebbe più ól Céa. Di bello è che è gran brutto (il naso) ma lo rende simpatico e unico: ól Céa per l’appunto. Mi rivedo entrare nella sua azienda di famiglia sita in piazza Unità (adesso piazza Lemine) con duplice attività ufficiali: stràsér e gélatér. Abbinamento stridente ma intrigante e vincente. Entravi nell’azienda superando un cancello di ferro ed eri nel cortiletto con pavimentazione in cemento grezzo e vedevi una ammucchiata di robe.
Il mucchio del ferro, dell’alluminio, del piombo, della latta, dello zinco, della carta, di altri metalli e cianfrusaglie. Per quello del rame (metallo più prezioso) aveva un occhio e attenzione particolare. Io bambino con altri amici e ragazzini, durante le vacanze e quando liberi da scuola, si andava a fèr nella discariche varie e römété del territorio. Si rovistava col bastone tre le schifezze e si cercava ferro, alluminio, rame, latta e tutto quanto si sapeva materiale commerciabile e poi si vendeva per poche lire al Cèa. Altre volte si portavano anche i pèl dé cünì. A questo proposito non sempre ól Cèa ritirava questo articolo (era in base all’andamento del mercato) e allora andavo dal Cirillo (stasér più in grande e concorrente) e lo vendevo qualche volta a un prezzo più elevato.
Le pelli di coniglio (nel mio caso) provenivano da casa mia: quando in famiglia si decideva di mangiare il coniglio, mio papà (Bepì panáda) con accortezza prelevava dalla capùnera la vittima, due colpi secchi con il taglio della mano sul groppino e il coniglio era morto. Veniva appeso con la testa in giù legato alle zampe posteriore alla regnada del cortiletto interno di casa, tagliata col coltello e forbici la pelle (del coniglio) nei punti giusti (un’arte il saperlo fare ) e poi mio papá tirava la pelle con forza ben calibrata e dosata e il manto del pelo era mio da portare al Cèa mentre il resto del coniglio, dopo averlo lasciato appeso qualche ora per dissanguarlo, finiva al fresco nel frigorifero e la domenica lo aspettava il caldo della polenta fumante.
Dal cortile si accedeva a sinistra alla cucina dove avveniva anche il pagamento per noi bambini. A destra mi sembra di ricordare una saracinesca verdina da dove si accedeva, salendo da uno scivolo in cemento, alla seconda attività: la gelateria. E lì dentro al fresco era la vera festa (che durava fino a quando la Céìna ti mandava via per necessità di spazio o troppo casino) di noi bambini e ragazzi: con 5/10 lire ti facevi il tuo gelato, o il limoncino, o il mottarello o il regale pòlo (odierno ghiacciolo fatto a tronco di cono) coi vari gusti. Non di rado capitava che, mangiando il pòlo ti poteva sanguinare la lingua perché il pòlo era fatto anche di ghiaccio non omogeneo e fine con scaglie, schegge ghiacciate così da sembrare e da funzionare come lame taglienti per la lingua. In bella vista era posizionato il motocarrino Guzzi che portava la cella frigorifera con superfici e pareti di faisite colore bianco, tappezzate di targhette mobili di pubblicità dei gelati. La parte superiore della cella frigorifera era caratterizzata dalla presenza di numerosi coperchi/tappi in alluminio, tali da sembrare dei funghi. Sollevando i rispettivi coperchi/tappi il venditore estraeva il gelato/i richiesti non senza errori di sollevamento coperchi / tappi quando c’era ressa, il tutto accompagnato dai rumori caotici del sollevamento e chiusura rapida dei coperchi / tappi e scorgevi nel frattempo una nuvoletta del vapore per il contrasto caldo-freddo.
Ultima e illegale attività del Cèa era quella della vendita della grappa. Cioè col Tèto (inseparabile amico di scorribande) acquistavano grappa (non so come, non so dove ) la mettevano nella camere d’aria delle bici che diventavano come salsicciotti e löanghìne gonfiate. Le nascondevano indossandole, poi inforcate le biciclette a fatica pedalavano verso i paesini e le contrade della valle e vendevano di casa in casa il prezioso e richiesto liquore. Mi viene detto che alcune volte ricorrevano anche a allungare (diluire) il prodotto con acqua di sorgente e mi vengono anche raccontate avventure amorose frequenti e talvolta scabrose.
Nota Bene
ÒL CÈA, che personaggio e che storia e il nome (Céa, Cèino, Ciaino- nomen omen ) racchiude in sé un duplice significato: 1) che al ciáá sö la zétt (raggira e frega la gente, comportamento truffaldino) 2) che al ciáá i dòne (avete capito senza traduzione). Lui stesso (mi raccontava tante volte) confessava poi il tutto al preóst e elargiva grosse elemosine alla parrocchia come penitenza: sì perché ól Cèa è sempre stato molto magnanime e generoso e io gli voglio tanto bene così.
continua prossimamente con la seconda parte…
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