“Zambelin se puoi dir la primavera del mondo tuto, in ato de pittura” o “il pittore migliore di tutti”. Lezione di Giovanni Carlo Federico Villa
Artista più rivoluzionario di quel che pensava il critico Longhi che lo vincolava alla pittura veneziana. Giovanni Bellini nasce nel 1440 da Jacopo pittore e nella bottega del padre imparò una sintassi goticheggiante e l’uso del colore che subito applicò per dare prospettiva. Già nelle prime opere ci sono i modelli fiorentini. Lo si vede in San Girolamo nel deserto, ripreso ancora in tempi successivi. Il santo eremita coperto da stracci è intento nel lavoro di traduzione della Bibbia, la Vulgata, in un paesaggio che è fatto di sbalzi rocciosi, bestie selvatiche, qualche uccello, il leone accucciato, e sullo sfondo la città con qualche abitante. Alcuni elementi hanno ancora un valore simbolico, alludono a tentazioni o virtù, ma l’insieme rivela l’attenzione dell’artista al reale e al mondo vivo.
Pur restando in ambito religioso affronta temi diversi, dalle Madonne col bimbo ai Compianti, dalle tavole devozionali alle pale d’altare. Nella Pietà dell’Accademia Carrara che dipinge giovanissimo si esprimono emozioni come lui ha visto fare dai pittori fiamminghi. La Madonna è in lacrime, Giovanni distoglie lo sguardo, in mezzo il viso terreo del Cristo, le mani senza vita sostenute da quelle della madre e del discepolo. Bellini impara le velature a olio, a disegnare come i fiorentini e a pennellare come i veneti creando zone di luce e di ombra, un colore che prende vita. Il paesaggio è visto in relazione all’uomo. E’ innovativo se pensiamo a quel che opera Botticelli nello stesso periodo, dove tutto è più rarefatto.
Ha la fortuna di avere nella bottega e poi in casa un grande come Andrea Mantegna e sposa la sorella Nicolosia. Il dialogo con Mantegna sarà costante. Da Mantegna copia la Presentazione che si trova a Berlino. Mantegna presentava la Vergine con il bimbo e il vecchio Simeone nell’atto di prenderlo in mano, figure solide, come i personaggi attorno tra cui si ritrae lui stesso e la moglie Nicolosia. Bellini riproduce la stessa scena con l’aggiunta di un paio di comparse, e così sé stesso, con un effetto diverso. L’atmosfera muta e il colore dà naturalezza agli sguardi.
Ancora a Mantegna si rifà con l’Orazione nell’orto (National Gallery Londra). Dà una nota di vero al paesaggio: la luce dell’aurora colora le nubi, Gesù inginocchiato in preghiera, gli apostoli dietro addormentati, mentre lontano si vedono i soldati e Giuda con loro.
Nella Pietà di Brera l’artista si afferma autonomamente. Sottolinea il dramma, la dolente umanità dei protagonisti: il volto della madre a contatto con quella del figlio, lo sgomento del discepolo quasi a cercare spiegazione, un muto risuonare di sentimenti. La tecnica asseconda il pathos emotivo: l’impasto di luce e colori, la stesura della tempera, il braccio abbandonato di Gesù sulla lastra marmorea. Sotto il colore i curatissimi tratti grafici. Paolo Pino, letterato veneziano, si domanderà più tardi il perché di tale e tanto lavoro se poi tutto veniva ricoperto dal colore. Forse perché i cartoni preparatori risultavano modelli di bottega a disposizione dei collaboratori? O forse perché la pennellata che veniva stesa acquistava nel contesto una tonalità nuova? Resta il fatto che Bellini diventava sempre più padrone di mezzi espressivi per i lavori successivi.
Opera della maturità è la Pala di Pesaro per la Chiesa di San Francesco. Nel pannello centrale è raffigurata l’Incoronazione della Vergine, con i Santi Pietro Paolo Girolamo e Francesco a lato, dietro il trono marmoreo e la finestra aperta sul paesaggio dove sono richiamate istantanee delle colline romagnole ed edifici ben riconoscibili nel suo tempo. Luce e aria circolano e i chiari scuri danno profondità, come le linee della pavimentazione che conducono lo spettatore alla scena sacra.
Altro capolavoro è il San Francesco in estasi, la pala che illustra l’evento miracoloso della Verna. Il Santo di Assisi incarna la sofferenza del Cristo Redentore. E’ raffigurato esile, fuori dalla grotta con il pergolato che separa la sua minima ma ingentilita dimora che ha l’aspetto dello studiolo, spazio di meditazione e di preghiera. Il Santo è in piedi, le mani aperte, lo sguardo al cielo, senza segni del divino, né angeli né squarci o raggi di luce. Il luogo è desertico – forse allusione a Mosè sull’Horeb – ma disseminati ci sono curati dettagli, innumerevoli specie arboree, animali che alludono al quotidiano lavoro dell’uomo a ricordare che la natura è casa che Dio ha predisposto per l’uomo. Lontana è la città fortificata, qualcosa di un aggregato urbano veneto.
Quasi a commiato l’ultimo lavoro, l’Ebbrezza di Noé, al Museo di Besançon. Bellini ormai novantenne riprende un tema insolito che ha per protagonista un vecchio. Si tratta del patriarca Noè; si è ubriacato con il vino della vigna e nudo ora giace per terra addormentato. Bellini, che ha assimilato anche la lezione di Giorgione, mostra la reazione psicologica dei figli che lo trovano: di chi vuol ricoprirne “le vergogne” e di chi ride.
L’artista Dürer che a Venezia si recò per incontrarlo disse di lui “pur vecchio è il migliore di tutti”. Mai ripetitivo, Zambelin fu pronto alle sperimentazioni e alle novità che fecero scuola senza perdere la bussola.
Dei nostri pittori bergamaschi lo seguirà Palma il Vecchio, non Lotto che pur grande di suo resterà chiuso alle mode come ai veri modelli.
Bergamo Liceo Mascheroni, 9 gennaio 2024