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Padre Mario Aldegani, bergamasco doc originario di Petosino, 66 anni, per dodici anni (dal 2006 al 2018) è stato superiore e padre dei Giuseppini del Murialdo. Dodici anni “senza fiato”, vissuti intensamente in ogni angolo del mondo dove la presenza giuseppina quotidianamente incarna il Vangelo declinata nel carisma del fondatore, uno dei grandi santi sociali della Torino dell’Ottocento. Padre Mario non mai particolarmente amato il termine superiore.
Non mi sono sentito mai “superiore” ai miei fratelli. Molte volte mi sono sentito molto inferiore a loro nello zelo apostolico, nella capacità di donarsi ai giovani, nello spirito di sacrificio e in tante altre cose. Ho avuto tanti buoni esempi dai miei fratelli e devo ringraziarli tutti per questo. Nell’ormai lontano giugno del 2006, quando fui eletto a Fazenda Souza (e dopo sei anni rieletto a Buenos Aires, ndr.), ho cercato di essere magari “padre”. Un impegno che ho sentito sin da subito e che mi ha accompagnato in tutti questi anni. Forse non sono stato capace di esprimere per tutti e sempre questa “paternità”, ma ci ho provato.

Il suo profilo Facebook, costantemente aggiornato, testimonia un’operosità non indifferente: il timone della congregazione, i viaggi, le conferenze, il sinodo (unico prete bergamasco a parteciparvi), un libro sulla figura di San Giuseppe scritto a quattro mani con Johnny Dotti… Insomma 12 anni che non sono stati una passeggiata.
Li ho vissuti rinnovando ogni giorno il senso della mia indegnità e tentando di cacciare continuamente dalla mia testa l’idea di essere chissà chi. Posso dire che ho incontrato molto affetto e molta comprensione. Poi ogni giorno ho cercato di ringraziare Dio perché mi sono reso conto che stavo vivendo una grande esperienza di formazione, unica nel suo genere; che stavo vedendo, ascoltando e apprendendo cose preziosissime; che stavo imparando molto attraverso viaggi, conoscenze, incontri, relazioni. Infine, in questi anni, ho percepito vivamente, più vivamente che mai la mia fragilità.

Fragilità? Quasi un ossimoro con il suo mandato
Si, per il fatto di essere impari alla complessità dei problemi. Molte volte ho pensato: se il padre generale fosse migliore… la congregazione andrebbe meglio. Lo scrisse anche il Murialdo ed ora lo capisco molto bene. È un pensiero che non puoi fare a meno di sentire quando sei caricato di responsabilità. Poi, per carità, è una vita come altre: ci sono giornate luminose e giornate grigie. Ma uno sa che il cielo è sempre blu sopra le nuvole (l’ho visto tante volte dai finestrini degli aerei). E allora avanti, pedalare! Ho la fortuna di avere un carattere portato all’ottimismo e quando le cose non vanno cerco di nascondere le mie preoccupazioni, ma chi mi sta vicino e mi conosce bene si accorge e allora mi dice: “Pensieri?”. Io abbozzo un sorriso, che vuol dire grazie! E… avanti!

Si è sentito solo in questi anni?
Ho avuto la grande fortuna di avere intorno dei buonissimi collaboratori e delle persone molto affidabili nel consiglio generale: grandi lavoratori, gente discreta e comprensiva, buoni amici. Aiutandoci reciprocamente, abbiamo lavorato bene, ognuno sapendo e accettando i difetti suoi e degli altri. L’abbiamo dimostrato quando abbiamo perso Padre Giuseppe Locatelli (originario di Almè). Era il segretario generale, un grande aiuto per tutti noi. Ma siamo andati avanti senza chiedere alcun sacrificio ad altri confratelli e cercando di fare il meglio possibile fra di noi.

Ha avuto il privilegio di partecipare a tre Sinodi dei Vescovi: nel 2012 con Papa Benedetto sulla nuova evangelizzazione e nel 2014 e 2015 con Papa Francesco sul tema della famiglia.
E’ stato qualcosa di inimmaginabile per me stare accanto a Papa Francesco e di poterlo avvicinare molte volte e parlargli con libertà. Una volta l’ho avvicinato per chiedergli un selfie per la nostra rivista Vita Giuseppina e lui sorridendo si è messo in posa. Il Sinodo mi ha permesso di incontrare in molti luoghi dell’Italia sacerdoti, fedeli, e gruppi per raccontare loro la mia esperienza e il senso delle riflessioni dei Padri Sinodali. Siamo usciti con addosso l’onere di una sfida culturale che rifiuta il teorema che vorrebbe cancellare la differenza in nome dell’equivalenza. Non è una questione di religione, ma di solidità antropologica. Livellando tutto si rischia l’omologazione. E’ nella rispettosa differenza che si cresce. L’esempio è la famiglia dove un uomo e una donna, con le loro differenze, camminano in un percorso d’amore.

Le esperienze che ricorda in modo particolare all’interno di una realtà che conta oggi oltre 500 confratelli, sparsi in circa 105 case, presenti in 16 paesi del mondo?
Anzitutto la vicinanza con i nostri giovani in formazione. Qui ho cercato proprio di mettercela tutta a mostrarmi ‘padre’ e a dargli l’idea che siamo famiglia e che la cosa importante tra noi è essere e vivere da fratelli, i ruoli contano molto meno. In ogni mia visita ho sempre voluto incontrare personalmente i giovani in formazione e mostrare interesse alla loro vita e al loro cammino. Poi la testimonianza dei laici, tantissimi in tutto il mondo, che ci vogliono bene, che credono nel carisma dei Giuseppini.

Il futuro della Congregazione?
Con padre Tullio Locatelli (anche lui bergamasco di Terno d’Isola, ndr.) è in buone mani, sempre a servizio dei giovani poveri e del mondo del lavoro. Ci anima la speranza! Quella non ce la può portare via nessuno perché Gesù sta sulla nostra strada, si avvicina e cammina con noi, come ha fatto con i discepoli di Emmaus, ci apre gli occhi al senso di ogni cosa, ci riscalda il cuore e ravviva in noi ogni giorno la voglia di comunione e di missione.


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