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Il mese di maggio i piccoli allevatori di monte sono in trepidante attesa della piena fioritura dell’erba nei prati e invocano la clemenza del tempo: che sia favorevole al pieno raccolto! Sole e pioggia devono fare la loro parte. Intanto i fienili piangono: non è nella loro natura rimanere vuoti e attendono la nuova massa frusciante di fieno.



La neve di maggio sul Resegone

Al tép e s’ga comànda mia!…” – ripetono gli anziani, lamentando, anche quest’anno, il ritardo della bella stagione, che stenta a mostrarsi in tutto il suo atteso splendore. La scarsità di piogge durante la scorsa primavera e oggi, a metà maggio, il freddo di ritorno, con la neve fresca apparsa sul Resegone pochi giorni fa, hanno rallentato la crescita della nuova erba e spostato in là il tempo della raccolta. Un ritardo di circa quindici giorni, anche in pianura. Qualcuno azzarda le prime conclusioni, valutando scarsa quest’anno la produzione di foraggio e prevedendo, di conseguenza, un rincaro del costo del fieno l’inverno prossimo. Ma è ancora presto per dirlo. Certo è che, nelle annate migliori, le famiglie nelle contrade alle quote meno elevate e di fondovalle, già durante i primi giorni di maggio, anzi alcune anche dopo la metà di aprile, iniziavano il taglio dell’erba nei prati meglio esposti. Quassù, invece, i segadùr negli insediamenti umani situati tra i settecento e gli ottocento metri di altitudine, iniziavano a bàt la rànza alla metà di maggio. Quest’anno bisognerà aspettare almeno una decina di giorni ancora.

Un po’ di pedicure… alle mucche

Il tempo della fienagione è annunciato come imminente dalla messa in libertà del bestiame, al pascolo, dopo un lungo inverno di reclusione nelle stalle. La gioia dei quadrupedi è incontenibile e, appena liberati dalla catena, si esibiscono nel prato con salti, sgroppate, corse all’impazzata. Ad accoglierli, il tappeto verde della nuova erba ricca di piante colorate e fiori profumati. Anche la stagione del pascolo si è spostata in là di quindici giorni circa e i primi gruppi di manzette hanno salutato all’aperto la nuova stagione solo poco più di una settimana fa. Ogni stalla in prossimità delle contrade abitate, infatti, oltre al prato, dispone nelle vicinanze di una piccola porzione di terreno adibita a pascolo, che viene tuttora utilizzata quale prezioso spazio dove, dopo aver trascorso anche cinque o sei mesi fermi in stalla, i bovini possano sladenàss fò ü tantì, ossia si riabituino presto alla vita all’aria aperta, tonificando e rafforzando, con i primi liberi movimenti, soprattutto i muscoli delle gambe, in vista della stagione dell’alpeggio alle quote più elevate. Se necessario, si ritoccano loro anche le unghie, cresciute eccessivamente e non consumate durante i sei mesi di immobilismo sul duro pavimento di cemento della stalla: racchiusa la vacca nell’arla, l’allevatore si avvale di una grossa pinza per tagliare la parte dura e sporgente delle unghie, in modo che il quadrupede possa affrontare l’alpeggio senza zoppicare.

Il passaggio delicato dal fieno all’erba

La mamma, vera bergamina sin dalla tenera età, nella famiglia del nonno Jósef di Ricüdì, ha sempre prestato molta attenzione a questo periodo, assai delicato per le vacche, soprattutto quelle frèsche e in piena lattazione, le quali da un lato devono adeguarsi alla nuova alimentazione (il passaggio delicato dal fieno all’erba), mentre dall’altro, prima si sgranchiscono gli arti intorpiditi dall’immobilità e si acclimatano al tempo incostante della stagione, meglio è. Quando ancora era in piena attività, incominciava – almeno una settimana prima di liberare le sue poche vaccherelle al pascolo – a modificare l’alimentazione in stalla, introducendo nella mangiatoia, dopo ü brassöl de fé, anche modeste quantità di erba fresca, segàda sö en dol pràt co la rànza e trasportata in stalla a mezzo della vecchia gabbia. Anzi, preparava nel fenèr anche il fabbisogno occorrente per la guarnàda successiva, in modo che l’erba recisa asciugasse per bene, per poi essere trasportata nel tepore della stalla. Però la gh’à mia da rebói, ossia non deve scaldarsi troppo, così ammucchiata e magari anche un po’ bagnata. Anche in seguito, evitava il pascolo nell’erba troppo tenera e soprattutto in quella ancora bagnata dalla rugiada mattutina: in principio, infatti, per non incorrere in tale pericolo, i àche e gli a lagàa ‘ndà solamente alcune ore il pomeriggio e il nostro compito di bambini, una volta terminata la scuola, era quello di accudire nel prato la piccola mandria, contenendola entro lo spazio giornaliero assegnato. Non c’erano ancora i recinti elettrici.

Rànza e rastèl nei prati profumati

Nonostante l’età le procuri dolori diffusi in tutto il corpo e la impedisca in diversi movimenti, ieri pomeriggio la mamma è comparsa, inaspettata, nel prato di Calsinù: aveva caricato sull’automobile rànza, codèr e prida, con l’intenzione de segà alcune andàne de èrba per guarnà i àche en cà. Ha una forza d’animo straordinaria, quella donna, e l’ambiente rurale, soprattutto in questo periodo di “liberazione” e resurrezione della natura, esercita su di lei un’attrazione cui non resiste. Perché lei e il prato e la stalla e le mucche sono un tutt’uno, componenti essenziali e inscindibili della sua vita. L’ho subito tranquillizzata con la màchena da segà e il trattore. Non ancora appagata, ha riposto la rànza nella sua “pandina rossa” e l’à ciapàt en mà ol rastèl, aiutandomi a terà ensèma l’erba fresca e dall’intenso profumo appena recisa. Caricatala a ras-ciàde sul trattore e depositatala nel fienile, servirà ad alimentare le vacche in mungitura per i due pasti successivi della sera e della mattina dopo. Conclusa finalmente anche quell’ultima azione, dopo essersi accertata dello stato di salute dei quattro bei vitellini racchiusi nelle loro gabbiette sö la stala dol fé, è ritornata a casa tutta soddisfatta.

La cura della stalla

La mamma era sempre molto attenta alla salute e al benessere delle sue vacche e, se con la prima erba le scomensàa a schetà, ne riduceva subito le dosi, rafforzando il quantitativo di foraggio essiccato, sin quando gli animali non si abituavano al nuovo regime alimentare. Di fronte alla prima èrba, i àche iè bramùse, quindi l’alimentazione va monitorata con attenzione. Le vacche preferiscono l’erba fresca addirittura al panèl. Gradualmente, poi, durante il corso dell’estate, le avrebbe liberate al pascolo due volte al giorno, la mattina dalle nove alle undici, dopo la mungitura, e il pomeriggio dalle sedici alle diciotto, prima della mungitura. La notte immancabilmente le vacche erano tutte legate in stalla, dove riteneva fossero meglio protette e al sicuro, anzi ricordo ancora oggi la sua meraviglia quando osservava incredula e quasi scandalizzata quei primi allevatori i quali, invece, lasciavano gli animali al pascolo giorno e notte e praticavano la mungitura all’aperto.  Ciascuna stalla aveva a disposizione, in un piccolo locale annesso, un cucinino, anche solo di due metri quadrati, dove lavorare il latte e conservare gli strumenti connessi alla gestione dell’allevamento, e, in mancanza del casèl, possibilmente con una cantinetta annessa dove conservare latte, panna e stracchini. La mamma si recava alla stalla almeno due volte al giorno e, soprattutto durante la bella stagione, si fermava ogni volta alcune ore.

Le tre tappe dell’alpeggio

Sino a circa dieci anni or sono, quando Pierina era ancora pienamente attiva in agricoltura, titolare della piccola azienda agricola a conduzione familiare, l’alpeggio avveniva in tre tappe, quali piccole transumanze interne al villaggio, che si ripetevano almeno due volte durante la stagione, con spostamento ogni volta della bergamina. Era un continuo movimento, da una stalla all’altra, e tale modalità era praticata da molte altre famiglie rurali del villaggio. Attualmente queste azioni sono ripetute dai giovani allevatori, come Francesco, che si pongono in continuità professionale con la tradizione

Prima tappa

Sin verso la fine di maggio, in concomitanza con l’avvio della fienagione, il pascolo avveniva nelle poche aree prative di Calsinù, una contrada situata a circa 750 metri di altitudine, un’altezza intermedia tra il fondovalle e le aree di monte vere e proprie, dove le vacche avevano trascorso l’inverno nella stalla vicina al villaggio, che la mamma raggiungeva con l’automobile in pochi minuti. Mentre la fienagione si concentrava nelle aree migliori, il pascolo veniva contenuto, come succede ancora oggi, lungo le fasce prative marginali, quelle che di norma costeggiano il bosco, e negli appezzamenti più ripidi e lontani dal fienile. L’eccessivo frazionamento dei terreni, in uso alle singole famiglie e ricadenti nelle aree di influenza delle contrade, ha prodotto nel tempo una sostanziale contrazione del raccolto e, nel löch di Calsinù, vengono annualmente prodotti non più di quaranta quintali di fieno. Rari sono i pascoli nelle aree in prossimità delle contrade, occupati soprattutto da campi e prati, e le vacche attendono di salire in montagna per spaziare in contesti più ampi. A Calsinù le dieci vacche grigio alpine di Francesco pascolano nel löch del Ciüì, un contadino emigrato definitivamente all’estero con la sua famiglia verso la metà del secolo scorso, quando molte contrade si spopolarono, gli animali cominciarono a diminuire, i terreni ad essere abbandonati e le stalle di pietra a rimanere inutilizzate e prive di manutenzione. Il papà, proprio in quel periodo di grande esodo, con i denari delle sue campagne lavorative in Svizzera, acquistò diversi terreni da compaesani trasferitisi altrove: a Calsinù dai Cassi emigrati all’estero, al Fughì da altri Cassi scesi in città, ai Calf dai Rota bergamini ormai rimasti definitivamente dalle parti di Inzago e non più transumanti, infine ai Crüsür dai fratelli Locatelli – Créoi – anch’essi veri martiri del lavoro e della vita agreste.

Seconda tappa

La seconda tappa avveniva nei primi giorni del mese di giugno, quando il fieno era giunto a maturazione anche alle quote superiori. Con la sua bergamina, la mamma saliva nel löch dei Calf, situato a circa 900 metri di altitudine, oggi facilmente raggiungibile attraverso una strada trattorale interpoderale, realizzata nei primi anni Ottanta, mentre prima si saliva dal sentierino impervio del Cornèl, impraticabile però dai quadrupedi, i quali seguivano la strada maestra, decisamente più lunga ma sicura, percorrendo la mulattiera in direzione della contrada di Cagaàs. Un’ora e mezza di cammino con la mandria. La montagna dei Calf era frequentata indicativamente dalla prima alla terza settimana di giugno e, anche lassù, le vacche durante la notte erano tenute in stalla. La famiglia rimaneva sempre in paese e bisognava salire sin lassù due volte al giorno per guarnà i àche, mentre durante la fienagione si rimaneva sul posto da mattina a sera, perché era un continuo alternarsi di lavori: segà, spànd, oltà, montonà,… Senza tregua. In principio non c’erano mezzi meccanici e tutti i lavori venivano eseguiti a forza di braccia, con rànza, rastèl, ràscc, sdìrna,… Il pascolo dei Calf si estendeva anche nel löch sottostante del Fughì, che il papà aveva acquistato, estendendo così, senza soluzione di continuità, la sua proprietà: seduto sopra la cisterna, a fianco di quella piccola stalletta, mentre accudivo al pascolo mucche e pecore, studiavo e ripetevo ad alta voce la Critica alla ragion pura e la Critica della ragion pratica di Kant, durante la preparazione agli esami di maturità, alla fine degli anni Settanta. Al rientro, la sera, poi, seguendo la discesa ripida del sentiero del Cornèl, per non rincasare a mani vuote, besognàa portà dó a spale öna càrga de lègna, provvedendo così, un po’ alla volta, alla scorta del prezioso combustibile vegetale per la stagione invernale. Tutto cambiò, nei primi anni Ottanta, con la comparsa dei primi trattori e la costruzione di strade carrabili.

Terza tappa

Terminata anche la fienagione dei Càlf, verso la fine di giugno la bergamina si spostava più su ancora, e la terza tappa si concludeva nel löch dei Crüsür, un appezzamento di terra situato attorno ai mille metri di altitudine, in prossimità della linea di displuvio sul confine tra la Valle Imagna e la Valle Brembilla, caratterizzato dalla presenza di un’ampia area a pascolo, dove le vacche potevano rimanere anche trenta giorni consecutivi in alpeggio. Lassù si concludeva la fienagione, o meglio il primo taglio. Per evitare i ripetuti e faticosi spostamenti due volte al giorno, il papà aveva dotato ogni stalla di un piccolo edificio attiguo – cucinino con branda – dove accasarsi la sera e rimanere “a guardia” della bergamina durante la notte. Gli ultimi anni di alpeggio, scendeva in paese solamente la domenica mattina, per andare a Messa. Ma il pomeriggio ritornava subito in baita, perché gh’ìa sö i àche da guarnà.

I ritmi complessi del bergamino

Con la fienagione e il pascolo nei Crüsür terminavano le tre tappe del primo “giro” di monticazione. La bergamina faceva ritorno a Calsinù verso la fine di luglio, dove occorreva attendere al secondo taglio dell’erba e al pascolo nel còrt. Aveva così inizio la seconda turnazione nei prati e nei pascoli, seguendo il medesimo sviluppo precedente, che sarebbe culminata verso settembre-ottobre con l’ultimo alpeggio nei Crüsür. Dipendeva dall’andamento della stagione. Da lì a poco, dopo aver pascolato alle diverse altitudini anche ol tersöl, l’ultima debole erbetta di fine stagione, le vacche sarebbero state stalàde verso la fine di novembre nella stalla di Calsinù, quella in contrada, e lì messe a riposo sino alla ripresa della stagione successiva, il mese di maggio dell’anno dopo. Ritmi e percorsi costanti e ripetitivi caratterizzano tuttora la vita del bergamino e della sua bergamina, in apparente semplicità e in sintonia con il corso naturale delle stagioni. Chi ci lavora, però, sa bene che ogni giorno bisogna compiere una serie di azioni complesse, che richiedono un’elevata organizzazione e sempre tanto tempo a disposizione. La vita con le vacche assorbe tutta la giornata lavorativa, da stèle a stèle, a corpo e non a ore. La montagna ha sempre chiesto ai suoi bergamini dedizione completa. Diversamente quassù non sarebbe possibile vivere.

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Antonio Carminati

Direttore del Centro Studi Valle Imagna

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