Scrivere non è solo un utile esercizio letterario. In effetti basterebbe il desiderio della bella scrittura per giustificare il leggero peso della penna impugnata nella mano mentre, sguainata come fosse una spada, si agita su questo foglio bianco, tracciando segni e linee di inchiostro.
La mia penna non è un fioretto, non nasce nelle accademie dove si insegnano le lettere e come abbellirle, anche se riconosco il valore dei maestri, ma la paragono piuttosto all’arma di un cavaliere errante, un po’ alla Don Chisciotte, durante il suo viaggio alla scoperta della conoscenza. Un po’ visionario, un po’ contadino. Con i piedi per terra, ma con slanci – lancia in resta – verso personali interpretazioni del mondo circostante. Parole e interpretazioni a volte strane e insolite, al punto forse da suscitare l’ilarità o la compassione di coloro che, pazientemente, leggono queste divagazioni e seguono il mio peregrinare nel contesto rurale, eternamente attratto dagli estremi: tradizione e innovazione. Impugnare la penna equivale ad affrontare un confronto serrato, come durante un combattimento, con le vicende quotidiane che richiedono di essere interpretate e conosciute nelle loro diverse componenti evolutive. La scrittura non è altro che l’atto finale di un processo di riflessione personale e di rilettura del proprio vissuto, in relazione dialogica con la vita della natura e dell’umanità. Non è certo la scrittura a fare la storia, poiché le lettere si limitano a interpretarla e codificarla, ma senza di essa la storia non esiste e non sarebbe trasferibile. Dunque, se a sprigionarla è innanzitutto un bisogno che nasce dalle modalità riflessive ed espressive di un individuo, nel suo manifestarsi si trasforma sino ad assumere una dimensione più generale, che risponde alla necessità di fissare nella storia, locale e generale, fenomeni sociali troppo importanti per essere trascurati o addirittura dimenticati. Come quello della fienagione.
Abbiamo lasciato alle spalle – l’ultima settimana di maggio – un’intensa attività agreste connessa all’avvio del taglio della prima erba. Un vero tripudio per tutta la valle. Si tocca con mano l’esuberanza festosa della natura, vestita con i suoi abiti migliori: i prati indorati, impreziositi da millefiori, attendono ormai solo il momento della messe. Una sorta di apoteosi della natura. Sono soprattutto le manifestazioni di gioia e l’esultanza dei contadini e piccoli allevatori di monte a destare la nostra meraviglia: attratti da un lavoro sfrenato, come in una corsa contro il tempo, per catturare persino l’ultimo raggio di sole, essi sono dediti, da mane a sera, allo sfalcio, all’essicazione, all’imballaggio e al trasporto del foraggio dai prati ai fienili delle loro stalle. Sono bastati quattro o cinque giorni di sole per accendere la miccia e innescare il processo, come un rituale che si rinnova tutti gli anni. I prati intorno al villaggio e alle sue principali contrade sono i primi a essere falciati, poi si sale nei löch in quota utilizzati per gli alpeggi estivi: è un rincorrersi di suoni e rumori di motofalciatrici, ranghinatori, trattori, imballatrici,… quale espresso invito a , ossia a far presto, per fà gola a qualche nuvola passeggera, dai colori grigiastri e minacciosi e dal possibile improvviso temporale. Suoni e rumori di festa, come quelli delle campane, e di contentezza, graditi a tutta la popolazione, anche a coloro che non sono direttamente coinvolti. È il contagio della fienagione, il rinnovarsi di una tradizione antica, che sa esprimere ancora oggi una forte carica emotiva e di condivisione. Il villaggio e la valle si illuminano di luce nuova, fresca, trasparente. Il profumo intenso dell’erba appena falciata si confonde con gli aromi del fieno essiccato e frusciante che, nella sua movimentazione, dal prato al fienile, trasmette sensazioni di benessere. Nei prati è un movimento incessante di uomini e macchinari, durante l’esecuzione delle varie attività. Ancora oggi la montagna, durante la fienagione, sa esprimere una vivacità straordinaria, nonostante la meccanizzazione agricola abbia un impiego parziale, poiché la conformazione del terreno e la sua distribuzione assai frammentata richiede di frequente l’esecuzione di lavori manuali, gli stessi che si ripetono da millenni, caratterizzati soprattutto dall’uso di ranza (oggi sostituita in molti casi dal decespugliatore) e rastèl.
L’attuale letteratura del fieno è cambiata rispetto a quella vissuta da chi scrive durante l’infanzia e, negli ultimi cinquant’anni, l’insieme delle azioni connesse alla fienagione, avviate dal richiamo dei grilli canterini del prato, ha subìto una significativa evoluzione. Il linguaggio insegue le varie modalità di lavoro, evolve in continuazione e nuovi vocaboli ne sostituiscono altri definitivamente accantonati. Non si formano più quelle caratteristiche andàne nel prato, lasciate alle spalle dal coraggioso segadùr, che già alle prime luci dell’alba si apprestava a falciare il dorato maggengo, così da ottenere a metà mattina, dopo quattro o cinque ore di duro lavoro, prima che la calura del sole diventasse opprimente, un consistente appezzamento di foraggio da fà secà. Armato di ràs-cc, dovevo spànd i andàne, seguendo a distanza il papà o lo zio impegnati nel gravoso lavoro di taglio, per distendere in modo uniforme quei mucchi d’erba e favorirne così l’essiccazione. Le andàne formavano nel prato ampie parabole simili alla falce di luna. A metà mattina, per rinnovare le energie dei valorosi combattenti nel prato, sö a l’Era o sö en Pradicù, giungeva una zia col tulì de rosömàda. La mamma, qualche anno dopo, negli anni Settanta, faceva lo stesso sö en dol prat di Calf. Ol segadùr portava con sé gli attrezzi occorrenti per tenere in ordine la falce fienaia: se tenuta bene affilata, come un rasoio, avrebbe alleviato la fatica. Innanzitutto ol codèr con dét la sò prida, agganciato con un uncino alla cinghia dei pantaloni: ol segadùr estraeva regolarmente, con movimento rapido e preciso, la pietra cote, tenuta bagnata nell’acqua, con cui affilava la lama della falce; in mancanza dell’acqua nel codèr, bastava un veloce e preciso sputo. Riposti in un sachilì de pèzza, non potevano mancare martèl e ‘ncöden, necessari per ribattere il filo di taglio della falce, che l’sé ‘ntepàa quando batteva inavvertitamente contro un sasso, oppure si conficcava nel terriccio accumulato da öna tópa vicino alla buca d’ingresso del suo cunicolo sotterraneo.
Ho ancora davanti agli occhi l’immagine del nonno, seduto nel prato, fò dri a la cà, a cavalcioni del grosso noce, dentro il cui tronco conficcava di norma l’incudine: indossati gli occhiali da vista con le spesse lenti, batteva il filo di taglio della lama, facendola scorrere pian piano sulla base dell’incudine. Era un lavoro preciso e delicato, che non tutti sapevano fare. La gestione del prato aveva le sue regole e nel tempo si sono perfezionati strumenti e attrezzi particolari per specifiche funzioni. Per tagliare di fino l’erba söi rìoi più ripidi, il nonno si avvaleva anche del seghés. Attualmente la ranza è stata, per così dire, “rottamata”, sostituita dalle moderne motofalciatrici rotanti, agganciate e trainate da robusti trattori. Dove non giunge il nuovo macchinario, soprattutto nei prati più scoscesi, ci si avvale del decespugliatore. Quello del segadùr era un mestiere stagionale vero e proprio e diversi contadini prestavano il loro servizio anche nei poderi altrui, dietro una piccola remunerazione, o in cambio di giornate di lavoro. I Créoi, una volta terminato il taglio dell’erba nei loro prati di San Simù, salivano sino nel villaggio dirimpettaio di Costa, per falciare i prati di altri, situati alle altitudini superiori, dove erano ricercati e attesi quali valenti. Così pure, nel passato, diversi contadini si trasferivano persino in Svizzera, nei Grigioni, per offrire tali prestazioni di fatica.
Nel novero delle molteplici azioni connesse alla fienagione, è pressoché scomparsa anche l’espressione montonà sö ol fé. Non si vedono più nei prati i muntù de fé, poiché i moderni ranghinatori, sempre al traino di trattori, avanzando spostano la massa di foraggio lateralmente, sino a formare lunghi accumuli longitudinali (còle de fé); il loro impiego polivalente consente di utilizzarli anche quali spandifieno. Fa sö i muntù de fé, anticipando il sopraggiungere improvviso di un temporale estivo, oppure la sera, per contenere l’attacco della rösàda notturna, coprendoli sulla cima rotondeggiante con vecchi tacù o tochècc de plàsteca, è un’operazione ormai desueta, anzi superata. L’indomani, poi, besognàa spànd i muntù de fé, non prima che il sole avesse asciugato la rugiada nel prato. Ormai gran parte delle azioni che si collocano tra lo sfalcio dell’erba e la raccolta del fieno (spànd, oltà e andanà ol fé) sono effettuate con mezzi meccanici, almeno laddove la superficie poco inclinata lo consente. Quei modesti covoni, sparsi qua e là nel prato, disegnavano curiose e particolari geometrie e per noi bambini costituivano lo spazio privilegiato del gioco, verso sera, per correre, nascondersi, saltare, divertirsi in un ambiente particolarmente accogliente e positivo, nel quale era possibile vivere narrazioni fantastiche e costruire esperienze immaginifiche.
Le moderne imballatrici hanno definitivamente messo da parte la vecchia sdìrna e nessuno predispone più i brassöi de fé nel prato, per quantificare e ordinare il carico di foraggio sul telaio ligneo finalizzato al trasporto e quale unità di peso. Le rotoballe di diverse dimensioni riempiono oggi i fienili, tanto nelle nuove stalle, quanto nelle antiche costruzioni, in molte delle quali sono state irrimediabilmente ampliate le aperture, già realizzate a misüra de fassì e ora modificate per poter farci entrare i grossi balù. Sono scomparse e mìde de fé sulle stalle e quindi anche la màssa dol fé è stata mandata in pensione: se ne vedono ancora alcune superstiti nelle piccole aziende rimaste a conduzione familiare, poco meccanizzate e senza intenti produttivi. Nelle cascine della Bassa è avvenuta la stessa cosa e i lunghi loggiati al piano superiore sono rimasti sprovvisti dei caratteristici càss de fé, che indoravano l’insediamento rurale e lo rendevano invidiabile agli occhi dei bergamini provenienti dalla montagna: con essi sono venute meno anche le squadre di taì che provvedevano al taglio e alla quantificazione di quella enorme massa di foraggio.
Come non richiamare all’attenzione anche le pìrle, i grossi covoni di fieno ben raccolto e pressato attorno a un robusto palo centrale conficcato nel terreno, che fungeva da asse del grosso cono circolare retto, alto anche quattro o cinque metri e con diametro di base di tre o quattro metri. La conicità favoriva lo scivolamento dell’acqua in superficie. Da diversi lustri non si costruiscono più le pìrle, mentre un tempo, quando le stalle non erano sufficientemente capienti per accogliere tutto il foraggio del prato circostante, non rimaneva altro da fare che costruire questi grossi covoni destinati alla conservazione stagionale del fieno, che sarebbe stato successivamente tagliato con la massa e trasportato nel fienile nel corso della stagione invernale, nel momento in cui si fosse liberato lo spazio necessario. Ricordo una pìrla, forse l’ultima, che il papà costruì, ancora nei primi anni Ottanta, nel löch dei Crüsür, l’appezzamento di monte da poco acquistato dai Créoi, prima di ristrutturare la stalla, allora inagibile. Dopo aver selezionato e ben livellato, con badìl e zapù, un punto pianeggiante nel prato, conficcò un lungo palo nel terreno, attorno al quale predispose la base con pali e frasche, per tenere sollevato il fieno da terra: mentre lui scaricava sul perimetro assegnato ras-ciàde de fé, noi figli avevamo il compito de pestàl bé,specialmente attorno al palo centrale, dove andava pressato maggiormente. Mano a mano che si saliva in altezza, il piano di calpestio del cono si restringeva e, per caricare il fieno sugli ultimi due o tre metri sommitali, bisognava avvalersi dello scalèt, mentre chi stava lassù, in cima, addetto al calpestio, doveva attaccarsi al palo, girandogli continuamente attorno. Al termine del lavoro di accumulo, la parte residuale del palo veniva tagliata e ricoperta con d’ü tòch de làta, per evitare le infiltrazioni dell’acqua all’interno. Col rastrello, infine, il papà girava ripetutamente attorno alla pìrla, pettinando per bene la superficie, rendendola così uniforme, in modo che l’acqua piovana vi potesse scorrere, come sopra una parete impermeabile, ed essere scaricata a terra. Con la stessa attenzione e l’amore con cui il Tata, ormai non più giovane, pettinava la mida dol fé sul fienile di Pradicù.
La fienagione ha sviluppato nel tempo linguaggi diversi, nati e cresciuti in contesti culturalmente anche molto lontani. Sulle Orobie, fà ol fé, per la generazione che mi ha preceduto, a maggior ragione nei secoli precedenti, occupava gran parte della stagione estiva: si falciava, di volta in volta, quel tanto di erba che rispondeva alla capacità di lavoro della famiglia e dei suoi componenti. Di norma occorrevano tre giorni: uno per falciarlo e distenderlo, il secondo per rigirarlo anche due o tre volte e farlo essiccare, il terzo per trasportarlo in fasci con la sdìrna nel fienile. I fienili delle antiche stalle andavano “caricati” gradualmente, un po’ al giorno, per evitare il surriscaldamento eccessivo causato dalla fermentazione del foraggio, che poteva anche provocare principi di autocombustione e bruciare persino la stalla. Le porte del fienile andavano tenute aperte e nei giorni immediatamente successivi il Tata effettuava diversi sopralluoghi in momenti distinti. La fienagione si trasformava in una grande festa per la famiglia, che nel prato si ricomponeva, resa ancor più augurale se accompagnata da vento e sole caldo. Perché… l’è ol sul che fà ol fé! In quei giorni il prato diventava il centro della vita contadina di uomini e donne, bambini e ragazzi, e anche gli anziani si rendevano utili, col rastrello bene impugnato tra le mani, per terà ‘nsèma la tràgna. Ol desnà si consumava seduti insieme nel prato, all’ombra di un noce, o fò al casèl, quando la Regiùra giungeva con la polénta fumante torciàda sö en d’ü sögamà: bastavano poche fette di stracchino o di salame per rendere quel pasto frugale particolarmente succulento, ma sempre guardinghi e alzando di frequente gli occhi al Cielo, per la paura di qualche improvvisa tronàdaz
Giugno era il mese del primo taglio (ol fé vero e proprio), dalla metà di luglio iniziava il secondo (ol còrt) e a settembre il terzo (ol terzöl), ma solo nei prati migliori, per lasciare nuove aree al pascolo autunnale dei bovini. Il tempo del fieno era assai diluito e durava diverse settimane, per più mesi. Attualmente si è molto ristretto e il principio della meccanizzazione ha innalzato le attese dei piccoli allevamenti di monte e aumentato enormemente la produttività. Come fanno i cacciatori, quando attendono impazienti la föria ottobrina del passaggio di tordi sasselli e bottacci, allo stesso modo i contadini si fanno prendere dalla föria de fà ol fé, cercando di sfruttare a più non posso le prime giornate di sole, come quelle della scorsa settimana, quando si è rapidamente passati dalle prime prove di fienagione alla föria vera e propria. Besógna spessegà! È il modello produttivistico, dell’agricoltura e degli allevamenti intensivi della Bassa, ad avere molte volte il sopravvento anche in montagna e una sola persona, prima con la falciatrice rotante, poi con gira-fieno e ranghinatore, infine con l’imballatrice, tutti attrezzi trainati di volta in volta dal medesimo trattore, attualmente è in grado di produrre in pochi giorni una quantità di foraggio decisamente superiore a quello tradizionalmente ottenuto dai diversi componenti della famiglia durante più settimane, impegnati con ranza e rastèl, ràscc e sdirna… Il tempo della fienagione è cambiato. I giovani attualmente sono animati da un acceso spirito di iniziativa, mentre gli anziani dispensano pillole di saggezza: Ardì che ol fé so l’à sémpre fàcc. Idirì che, pröma de Nedàl, i pràcc i sarà bèi nècc!… E’ un invito a non farsi prendere dall’ansia della föria e a recuperare una relazione umana complessiva, non solo produttiva, con il prato e le sue componenti.
Ancora una volta è la natura a restituirci la misura del tempo e a ricondurci entro i limiti della nostra dimensione: la settimana entrante, portatrice di piogge e temporali sparsi, afferma un naturale dettato alla moderazione e al riposo. I segadùr rimangono in attesa del sole rassicurante e duraturo per riprendere l’attività nei prati carichi di foraggio maturo… Mentre un tempo gli anziani interpretavano la meteorologia osservando i colori del cielo, il movimento delle nuvole, il tirare del vento,… ed alzavano di frequente gli occhi al Cielo, al giorno d’oggi l’attenzione è calata sui telefonini cellulari e le numerose App in grado di prevedere l’evoluzione del tempo e il sopraggiungere della pioggia… I contadini del bacino dell’Imagna rivolgono ancora oggi lo sguardo sospeso verso la loro montagna, interrogandola e attendendo da essa segnali rassicuranti. E’ ancora attuale il detto: Quande ol Resegù e l’gh’à sö ol capèl, mèt dó la ranza e tö sö ol rastèl!…