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Ci sono due date e due località che richiamano alla luce il dramma delle Grandi Guerre della prima metà del Novecento e uno dei più criminale ed efferati genocidi del ventesimo secolo, di cui l’umanità non smetterà mai di indignarsi. La prima data è il 26 gennaio 1943 (battaglia di Nikolaevka). La seconda data è 27 gennaio 1945 (liberazione del campo di sterminio nazista di Auschwitz). Due macro eventi che hanno messo in crisi i nazionalismi del secolo scorso, rispetto ai quali, quello tedesco, in particolare, aveva assunto il volto dell’etnicismo. Col venir meno anche degli ultimi reduci e sopravvissuti (il drappello si sta assottigliando di anno in anno), quindi senza poter contare più sulla testimonianza diretta di chi è stato protagonista di quelle tristi vicende, c’è il rischio che la partecipazione popolare e la trasmissione della memoria collettiva subiscano una battuta d’arresto. Noi abbiamo respirato questi argomenti in famiglia e a scuola, ma mi rendo conto che per le nuove generazioni non è più così. Ricordare, oggi, quelle date, significa tenere viva la memoria di immani sacrifici, riconoscendo il valore di lezione storica e umana a quei drammatici frangenti. Fanno bene gli “Amici dei Tre Faggi” a ricordare, lassù, in cima alla montagna, l’alpino Giovanni Zuccala, disperso in Russia e mai più tornato. Fanno bene gli Alpini a coinvolgere le scolaresche nelle loro varie manifestazioni, soprattutto a quella del IV Novembre, perché bisogna oggi ritornare a spiegare ai bambini cosa è il Monumento ai Caduti! Bene fanno gli insegnanti e i bibliotecari ad organizzare pellegrinaggi sui luoghi della memoria, perché è dovere di ogni uomo calpestare il suolo di Auschwitz a gennaio.

Tali spunti ci consentono di cogliere la connessione tra la macro e la micro storia, per meglio comprendere il punto di vista e l’atteggiamento della popolazione locale nei confronti dei drammatici avvenimenti citati: sia di coloro che, al fronte o nei campi di prigionia, hanno reagito, ma anche di quanti, soprattutto donne, bambini e anziani, hanno vissuto la guerra “a distanza”, ossia continuando ad abitare nelle contrade e nei villaggi di sempre, da dove sono partiti centinaia di soldati, diretti al fronte, molti dei quali non sono più tornati. Negli ultimi anni il Centro Studi Valle Imagna ha raccolto diverse testimonianze locali, proprio con l’intento di salvare un prezioso patrimonio di conoscenze e di esperienze collettive a rischio di scomparsa. Come non ricordare e onorare, ad esempio, la figura di Gino Manini, l’alpino che ci ha raccontato il “miracolo della vita” a seguito dello sfondamento della sacca di Nikolaevka; oppure l’azione di salvataggio compiuta in prima persona da Eurosia Frosio nei confronti di una famiglia di ebrei a Sant’Omobono; e come non considerare, ancora, i valori propugnati da Don Alessandro Brumana, allora parroco di Valcava, internato con Don Antonio Seghezzi a Dachau?… E le citazioni potrebbero proseguire a decine. Sono solo la punta di un iceberg molto più esteso, costituito da migliaia di gesti e azioni quotidiane, con fondamento umanitario e di pietà cristiana, al centro dei quali si poneva sempre una scelta di fondo: agire in prima persona, sfondando le sacche delle omertà e delle indifferenze, rischiando anche la vita nelle situazioni più difficili, oppure non fare nulla e lasciarsi trascinare dai dettami delle autorità? Dall’acquisizione di molte testimonianze, possiamo affermare che, in Valle Imagna, anche nei periodi più rischiosi, durante la Seconda Guerra Mondiale, la popolazione ha protetto prigionieri in fuga, soldati sbandati e civili perseguitati per motivi etnici. I meno giovani rievocano ancora quel recente passato, anche sul piano del coinvolgimento emotivo e familiare.

Dagli Archivi della Memoria e dell’Identità del Centro Studi Valle Imagna possiamo estrarre diversi brani in tal senso. Ol pòer Piéro de Canìt – ad esempio – e l’mandàa söl Càt, töte e l’sìre, entàt che l’fàa brü, öna de so tosà a portàga dó ai presonér, scundìcc en chèla stala, ü tulì de menèstra co ‘mpó de polénta. Ancora: la pòera Rina de la Còrna, il cui marito era lontano in guerra, aveva accolto e nascosto nella sua casa un soldato, tra i tanti allo sbando, dopo l’otto settembre 1943, pensando: “Chessà che, come mé, da ü quàch d’ótre i fàghe istèss col mi óm!…”. Tutte le speranze di quella donna andarono deluse: il soldato che nascose nella sua casa venne arrestato e – si dice – fucilato; anche suo marito non tornò più dalla guerra e lei stessa, pochi anni dopo, morì dal dolore. Quanti drammi familiari, di cui si sente ancora oggi, passeggiando in silenzio tra le nostre contrade, un lontano eco! Dal 1943 al 1945, le stalle della valle erano un rifugio assai frequentato da uomini in armi, soldati allo sbando e rimasti senza comandi, disertori e prigionieri fuggiti dal campo di prigionia della Grimellina, a Bergamo, civili in fuga, molti dei quali transitavano per proseguire verso Nord, in Valtellina o nella vicina Svizzera.

Diversi parroci hanno registrato questa situazione nei rispettivi Cronicon parrocchiali, ovviamente con dovuta prudenza. Molto efficace, ad esempio, è la descrizione di Don Piero Arrigoni, parroco di Morterone, riferendosi ai flussi di fuggiaschi provenienti dalla Valle Imagna, nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre 1943. Gran parte dii essi proseguirono nel loro viaggio verso la salvezza, mentre altri si fermarono, trovando riparo e assistenza, rimanendo nascosti nei diversi insediamenti rurali, sparsi sui versanti montani, e protetti dalla popolazione sino alla fine della guerra. Interessante la fotografia qui riportata: è ritratto un gruppo di soldati, sbandati, anche civili fuggiaschi, di varie nazionalità, italiani, slavi e russi, polacchi e francesi, riunitisi al Santuario della Cornabusa, in segno di gratitudine, ponendo un ex voto, per l’ospitalità e la protezione offerte loro dalla popolazione e dall’ambiente della Valle Imagna. In questo modo essi hanno voluto rendere pubblica testimonianza, a perenne ricordo, di questa singolare e non facile esperienza di vita, in uno dei frangenti storici più drammatici del Novecento. Senza dimenticare che, dopo la Liberazione, sempre nelle stalle, trovarono efficace rifugio quanti, conniventi con il passato regime fascista, avevano paura di ritorsioni, atti di giustizia o vendette da parte dei partigiani. Contando sempre sul medesimo sentimento di pietà umana e cristiana della popolazione…


Contributo di Antonio Carminati, Direttore del Centro Studi Valle Imagna


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Antonio Carminati

Direttore del Centro Studi Valle Imagna

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