In un frammento postumo (1887) Nietzsche parla di verità come processo; non realtà preesistente o possibile ma sempre nuova e legata alla volontà di potenza. La ricerca della verità non si colloca sul piano conoscitivo ma ha attitudine trasformativa ed è espressione di attività pratica. In un altro frammento allude alle verità così proposte dalla tradizione che sono illusioni, metafore consumate alla stregua delle monete che persa l’immagine son trattate da vile metallo.
Su che cosa si basa la sua concezione della verità? Per capirla bisogna rifarsi a due testi significativi appartenenti alle due tradizioni, quella giudaico cristiana e quella greco romana.
Nel Vangelo di Giovanni si racconta che nel momento del processo Pilato chiede a Gesù: “che cos’è la verità?” Dopo una notte angosciante è stato arrestato e subito condotto davanti ai capi religiosi, Anna e Caifa che è il Sommo sacerdote, i quali di fronte al rifiuto di Gesù –“ho sempre parlato apertamente” – lo mandano dal governatore romano Pilato. La domanda di Pilato scaturisce dalle parole di Gesù “sono venuto a rendere testimonianza (marturéso) alla verità”. Gesù aggiunge: “chiunque è dalla verità ascolta la mia parola”. Da qui la domanda di Pilato: quid est veritas (ti estin alezeia)? La verità di Gesù non risponde ad argomenti concettuali, è dinamica, ha il carattere della vita (“io sono la via la verità la vita” Gv 14,6). La verità di Gesù non ha il carattere di legge o di ideologia politica ma è una testimonianza di vita.
Non un prodotto ma un processo si rivela la verità secondo il Mito della caverna di Platone (Repubblica VII): uomini incatenati con alle spalle la luce, impediti di girarsi, vedono ombre che scorrono sulla parete. E’ una parabola della condizione umana: noi viviamo nell’ignoranza, spettatori di una verità illusoria. Il prigioniero che si libera apre il processo di liberazione. Non si dice come e perché si libera; è un fatto.
Esce si rende conto del mondo ingannevole che l’ha accompagnato dall’inizio. Raggiunta la sommità della caverna non si ferma fuori, non sta a godersi la luce. Sente il bisogno di tornare e di convincere gli altri, a costo di essere deriso o peggio ancora.
Heidegger in un saggio ritiene la ridiscesa una componente autentica dell’essere liberi: “noi liberi se capaci di essere a nostra volta liberatori. La verità non è quieto possesso e bene da godere in pace. Non possiamo sederci e ammonire gli altri con sentenze. La verità è “svelatezza” (alezeia), accade nella storia di una continua liberazione”. Il percorso non si completa con la propria libertà. Una volta fuorusciti dobbiamo pensare agli altri.
Strano che nello stesso tempo in cui Heidegger pronunciava questo discorso (1933) aderisse al partito nazionalsocialista, anche solo per sei mesi. Lui che aveva colto così bene il processo di liberazione cadeva in così vistosa contraddizione.
(Umberto Curi a Noesis 202/23. Sintesi della lezione dal titolo Platone, dimostrare col mito all’Auditorium Mascheroni di Bergamo, 21 marzo 2023)