Ol Preóst sant, il prevosto santo. Un appellativo che pone don Giovanni Antonio Rubbi, prete del Settecento bergamasco, nativo di Zogno (località Padronecco) nel 1693, nella cerchia dell’agiografia popolare sempre in anticipo rispetto a quella ufficiale.
Sorisole, la sua ultima parrocchia (dopo Monte di Nese lasciata nel 1740), conserva i segni di «una figura di sacerdote e parroco – sono parole di monsignor Clemente Gaddi, vescovo di Bergamo – notevole per santità di vita e per zelo apostolico, degna espressione di tutta una generazione di preti bergamaschi che nel 1700 hanno contribuito in modo determinante all’edificazione cristiana del nostro popolo».
In paese troviamo una via nel centro storico, una statua sul sagrato di Petosino (restaurata per rimediare all’effetto groviera profuso dal tempo) e tutta una sequela di dipinti che raffigurano il volto “scarnato e sparuto, tante volte con lunga barba…” di un prete la cui fama varcò i confini di un’Italia ancora da fare tant’è che un ex gesuita, lo spagnolo Pedro Montengón y Paret (1745-1824), lo cita nella sua opera pedagogica intitolata “El Eusebio”. Don Rubbi muore il 15 marzo 1785. Un anno dopo, in Francia, nasceva a Dardilly (Lione) Giovanni Maria Vianney, il Santo Curato d’Ars, scelto da Papa Benedetto XVI come figura di riferimento nell’Anno Sacerdotale indetto nel 2010. Due preti accomunati dalla tensione verso una perfezione spirituale intesa come punto inderogabile per l’efficacia del ministero.
A Sorisole s’era pure costituito il comitato “Don Rubbi”, guidato da Luigi Roffia, per concretizzare un museo permanente, nel centro parrocchiale, che raccogliesse le memorie e le suppellettili sacre del Preóst sant. E in occasione del 225esimo anniversario della sua morte si era aperto anche un sito internet (ora, purtroppo, introvabile in Google e chi sa dove sia finito batta un colpo) che permettesse di pubblicare e far conoscere gratuitamente a un vasto pubblico di utenti la figura di questo sacerdote che la popolazione di Sorisole venera come “santo”».
Don Rubbi visse in un’epoca, dominata (almeno per Bergamo) dalla Serenissima Repubblica di Venezia, dove la forbice sociale, assai divaricata, vedeva gli strati popolari agitarsi nell’estrema miseria e un’élite, d’altro canto, assiepata negli agi di una sfarzosa ricchezza. Un appunto necessario per spiegare l’azione di un sacerdote che assumeva in se il mandato del “sustentamento” spirituale con la cura corporale visto che i medici fatti e finiti era costume che giungessero solo nelle case dei signori. Da qui il luogo comune, ancora radicato negli anziani, che in sacerdoti e medici emerga la convergenza di un lungo tratto di percorso formativo. E si vedeva Don Rubbi aggirarsi tra le casupole dei suoi parrocchiani infermi, non badando «né a ghiacci né a nevi, né alla sua stanchezza, quando ha lavorato tutto il giorno».
Era un guaritore che aizzava l’ostracismo di insigni dottori che perdevano clienti su clienti attratti dalla canonica rispetto all’ambulatorio. Scrive Cesare Persiani nella ristampa del 1971 della biografia di Don Rubbi stesa nel 1857 da don Giovanni Suardi. «Succede così che, man mano, anche i nobili cominciano a ricorrere a Lui, né ad essi, abituati a valutare i medici in proporzione ai loro onorari, fa più specie che quest’uomo rifiuti le ricompense dirette alla sua persona fino “a proibire ai suoi domestici, comeché poverissimi, di accettare da chicchessia il minimo regalo». Don Rubbi guariva senza nemmeno volerlo, o, per lo meno, senza volerlo sempre, come per soprannaturale virtù.
La riconoscenza, rifuggita dal Rubbi, “rientrava” nella bella chiesa prepositurale. Come il pulpito dei fratelli Caniana del 1750, gli stalli del coro e gli armadi della sacrestia attribuiti a Giovanni Sanz (protetto del Fantoni) e la pianeta per il tempo ordinario di seta purissima donata dall’Arciduchessa d’Austria Maria Amalia per grazia ricevuta. Accanto alle qualità taumaturgiche Don Rubbi spiccava per lo zelo pastorale e la fede solida come il Canto Alto che scorgeva dalla porta di casa. «Non è credibile – riferiva il vicario generale al vescovo Redetti – la diligenza di lui nelle incombenze parrocchiali, sia per sapere e rimediare ai disordini con imperturbabile costanza di spirito, sia nell’udire le confessioni, sia nel predicare la divina parola». Così si esprimeva il suo successore, don Gianmmaria Tiraboschi, nella relazione in latino vergata tre giorni dopo la morte di Don Rubbi. «Fino agli estremi del suo vivere tenne fermo nella pratica di celebrare la santa Messa all’alba. Brevissimo e disagiato era il suo sonno che interrompea, levandosi sempre, qualora non ne fosse da grave malattia impedito, alla mezzanotte per recitare a Dio le lodi mattutine». (Bruno Silini)
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