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Le osterie di comunità sono ambienti, oggi, per lo più di natura simbolica (mentre un tempo erano calati dentro la quotidianità delle persone nel contesto montano), in grado di richiamare alla luce e rappresentare ancora alcune relazioni sociali autentiche tra le persone e le famiglie all’interno dei villaggi rurali e delle loro contrade.


L’osteria rispecchia un modello di vita e di organizzazione sociale impostato su strette relazioni comunitarie e, soprattutto nel passato, ha costituito quasi la naturale espansione della famiglia, espressione della necessità delle persone di stare insieme, anche per esigenze di reciproca mutualità. Incuriosisce il fatto che, proprio la montagna, per antonomasia terra delle libertà, sin dal Medioevo, e della piccola proprietà contadina, abbia espresso una visione di comunità rurale reale molto elevata e dotata di una propria organizzazione sociale. I concetti di libertà e di proprietà, in questo caso, hanno saputo esprimere una sintesi originale con quelli di comunità e società, nelle quali l’individuo si è riconosciuto, accettandone la loro collocazione superiore e la propria condizione subordinata. Prevalevano decisamente gli interessi della famiglia, della contrada, del villaggio, rispetto a quelli dell’individuo. I gruppi-famiglia, contrada e paese, considerati ciascuno nel proprio insieme, nell’antico mondo contadino sono sempre stati portatori di valori e significati maggiori rispetto a quelli degli individui che li componevano. Più volte e in diverse circostanze di ricerca, abbiamo messo in luce questa dimensione collettiva, non in opposizione, bensì a completamento di quella individuale, soprattutto in un contesto di economia di sussistenza. Quando, sino ad alcuni anni or sono, mi dilettavo – nell’ambito di indagine locali, poi confluite in diverse pubblicazioni – a leggere i documenti dei secoli scorsi, conservati in archivi pubblici e privati, capitava spesso di imbattersi nel termine “comunista”, riferito ovviamente non al rivoluzionario bolscevico, ancora molto di là a venire, ma quale indice di appartenenza dell’individuo alla comunità dei capi famiglia intervenuti in un’adunanza, oppure dei possessori o degli estimati del villaggio rurale. Comunisti erano chiamati gli abitanti del Comune e della contrada, mentre in Francia i Comunardi erano coloro che parteciparono alla rivoluzione giacobina.

La festa. Corna Imagna, contrada Calcinone, primi lustri del Novecento. Centro Studi Valle Imagna. Archivi della Memoria e dell’Identità.

Più volte abbiamo scritto che, soprattutto nel passato, la montagna è stata il luogo privilegiato delle rappresentazioni comunitarie, l’ambito dove era possibile sperimentare modalità aggregative spontanee, quali risposte personali e immediate a esigenze concrete. Senza dover dipendere da padroni e fittavoli delle terre. In questo senso la montagna ha saputo esprimere diverse formule e modalità connesse alla necessità dello “stare insieme”. La montagna non è fatta per stare da soli, ma per vivere in comunità, sulla base di aggregazioni gruppali connesse spesso alla parentela, ma anche alla contrada e al villaggio, alle professioni o ai commerci, nei diversi livelli di rappresentazione sociale e di identificazione personale. La scelta di vivere nelle contrade, non in case sparse e isolate (come invece avviene al giorno d’oggi) ha documentato la necessità dei gruppi stanziali di creare coalizioni stabili; gli insediamenti tradizionali prevalenti, indicatori del processo di espansione delle rispettive famiglie, attraverso accordi e scambi matrimoniali, costituiscono ancora oggi l’indice più evidente del modello di vita aggregata e cooperante. Vivere in casa propria, ma aggregata a quelle delle altre famiglie, con muri divisori in comune, significava risparmiare porzioni di territorio, ottimizzare i servizi alla residenza, gettare le basi fisiche per la costruzione di relazioni di mutuo e reciproco soccorso, soprattutto per fronteggiare i momenti meno favorevoli e più difficili della vita, percepita nella sua precarietà. Le contrade più sviluppate, grazie anche alle modeste fortune accumulate da alcune famiglie, oltre ad assumere un aspetto edilizio fortificato, imponente, caratterizzato dalla presenza di case-torri (nei punti strategici del loro perimetro) e dalle diverse corti anch’esse cintate, possedevano al loro interno preziose sorgive d’acqua, un piccolo oratorio, il lavatoio, l’osteria,… ed erano dotate di spazi civili e religiosi per l’incontro, la convivialità e l’osservanza dei doveri cristiani. Insediamenti rurali orientati a creare le condizioni essenziali per l’autosufficienza economica e sociale, in modo da dipendere il meno possibile dai servizi esterni, potenzialmente pregiudizievoli al pieno soddisfacimento delle proprie necessità e al principio di auto-sostentamento.

Corna Imagna. Il nuovo centro del villaggio. A sinistra del campanile il nucleo di Cà de Màrch, dove aveva sede l’osteria del Balèta; a destra del campanile la contrada Fenilgarèl, dove c’è ancora oggi l’osteria del Paciola. Centro Studi Valle Imagna. Archivi della Memoria e dell’Identità.

Le contrade meglio organizzate e bene strutturate avevano la propria osteria; di volta in volta, in relazione ai periodi storici, alle circostanze di luogo e alla capacità del gestore di fornire servizi aggiuntivi, tale spazio ha assunto nomi diversi: fiaschetteria, caneva, mescita, dopolavoro, circolo reduci,… In molti casi l’osteria disponeva anche di una o poche altre camere situate al piano superiore del medesimo stabile, oppure nelle sue immediate vicinanze, che venivano messe a disposizione per soddisfare la richiesta di qualche viandante costretto alla sosta notturna per il riposo, e poter riprendere così il viaggio l’indomani sulle antiche mulattiere selciate, vere “autostrade” di un tempo. Era considerata un locale “alla buona”, dove bere in compagnia un calice di vino, destinato soprattutto agli abitanti del villaggio. Generalmente di piccole dimensioni, poco più grande di una normale stanza, di norma al piano terra, non conteneva più di quattro o cinque tavolini rustici di castagno, con lato quadrato di circa un metro, sostenuti da robuste gambe tornite e, attorno a ciascuno di essi, non si sedevano più di quattro persone. Nel piccolo ritrovo, illuminato la sera dalla luce fioca della löme riscaldato dalla stüa a legna (dalla quale in molti casi il locale prendeva anche il nome – ol locàl de la stua – distinguendosi così dal locàl dol camì, situato invece nella cucinetta rustica lì a fianco), si serviva soprattutto vino, fatto venire prevalentemente da fuori, di solito piuttosto forte, che si differenziava dal peciòrla, il vinello di produzione locale a bassa gradazione. Il grado alcolico superiore, rispetto a quello del consumo familiare, metteva in difficoltà diversi uomini i quali, bevuti due o tre bicchieri de chèl bù a l’ostaréa, brindavano già colmi di effusioni alla potenza estatica di Bacco. Sarebbe stato poi compito delle donne più coraggiose della famiglia, anche della matrona, ndà a töi, ma si trattava di un’azione alquanto difficile e pericolosa. Non era certo un fatto onorevole, per l’uomo, farsi venire a prendere all’osteria dalla moglie o da un’altra donna della casa, figlia o sorella,… La notizia sarebbe corsa di bocca in bocca, da una contrada all’altra, nei giorni successivi, quasi a mo’ di scherno. Ogni contrada possedeva il proprio locale d’incontro per la piccola ma robusta comunità locale e, in mancanza di una fiaschetteria, poteva bastare anche una semplice stalla, non una qualsiasi, ma quella più spaziosa e accogliente per ospitare gli incontri serali, soprattutto nel periodo invernale, riscaldata dalla presenza di alcuni quadrupedi, frequentata – quella sì – anche dalle donne e dalle famiglie della contrada.

Osterie di contrada. Centro Studi Valle Imagna. Archivi della Memoria e dell’Identità. Fondo Rinaldo Della Vite

Gli uomini si recavano all’osteria soprattutto la domenica, dopo la Messa mattutina e al termine della Dottrina pomeridiana, due appuntamenti di precetto, istìcc sö de la fèsta, dato che tale ambiente costituiva un prezioso punto di riferimento per l’incontro degli uomini, lo scambio di informazioni, la condivisione di esperienze particolari e il confronto su argomenti di interesse generale. Nel corso della settimana, invece, occorrevano motivi particolari per recarvisi, come l’appuntamento per la stipula di un contratto o la definizione di un accordo. Il calice di vino bevuto in amicizia e la stretta di mano finale, in luogo pubblico e alla presenza dell’oste, sancivano l’avvenuto accordo tra le parti, che veniva così definitivamente suggellato. Durante il periodo invernale, però, quando la fitta coltre di neve impediva l’esecuzione dei lavori campestri e forestali, l’osteria era maggiormente frequentata anche dai giovani della contrada. Vigeva sempre una sorta di tacito divieto alla frequentazione femminile, anzi la donna a volte faceva la sua veloce comparsa, sempre dietro espresso invito del marito, dopo la Messa domenicale dell’aurora, alla quale veniva offerto un marsalino, prima di riprendere la strada verso casa, dove ad attenderla c’erano i diversi lavori domestici e agricoli. Oltre alla mescita di vino, all’osteria venivano offerti pure alcuni alimenti di base della dieta contadina e spuntini veloci: qualche fetta di salame o di stracchino, di testina o di lardo, o magari alcuni cotechini, accompagnati dalla polenta, anche abbrustolita, o dal pane,… preparati nel locale del camino della famiglia ospitante, cui si accedeva di norma direttamente dall’osteria. In occasione delle principali celebrazioni religiose del villaggio, si preparava anche la bösèca la sera della vigilia della grande festa. Soprattutto le osterie situate in prossimità delle principali cavalcatorie selciate di prima classe, che collegavano i villaggi, si trasformavano in veri e propri punti di ristoro, dove avveniva la somministrazione di alimenti e bevande. Nel villaggio di San Simù, il rituale incontro del gruppo degli uomini, tutti col cappello in testa, in prossimità dell’ingresso loro riservato della chiesa parrocchiale, prima dell’inizio della funzione religiosa, serviva per avviare alcuni argomenti di conversazione, che sarebbero poi stati ripresi, al termine della celebrazione, all’osteria e portati così a conclusione.

Corna Imagna. Gruppo familiare. Primi lustri del Novecento.

Durante gli anni Sessanta del secolo scorso, il mondo delle osterie di contrada era ormai tramontato e di alcune di esse, come quelle della Tesöla fò a la Còrna o di Cà Gaàs all’interno del grande complesso rurale dei Rota-Macì, o ancora la piccola “fiaschetteria” della Roncaglia, è rimasta debole traccia solo nel ricordo degli anziani e in alcune licenze d’esercizio ormai ingiallite dal tempo. Nell’Alto Comune ne erano sopravvissute solo due, quelle del Pacióla e del Balèta, dotate entrambe di campo da bocce, abbinate alla bottega e situate all’interno del nuovo centro del villaggio che si stava rafforzando a vista d’occhio. Quel millenario processo di decentramento e rivendicazione delle autonomie locali era giunto nella sua fase conclusiva, anzi incominciava già allora a prendere vigore la nuova tendenza centralizzatrice dello Stato, che accorpava i principali servizi, dalle periferie delle contrade alle aree urbane e di recente formazione. Nelle contrade si sono improvvisamente spente molte luci e sbarrate centinaia di porte. Case chiuse per sempre e stalle rimaste orfane delle loro vaccherelle… Delle ultime due osterie tradizionali, attualmente ne è rimasta una sola, ma soprattutto è venuta meno la sua funzione originaria di luogo di ritrovo di contadini, artigiani e piccoli allevatori, un tempo desiderosi di confrontare esperienze e progetti, che al giorno d’oggi viaggiano attraverso altri canali di comunicazione. Il crollo dell’antico modello insediativo, fondato sulle istanze e necessità del mondo contadino, ha trascinato nella rovina anche tutte le sue principali istituzioni di supporto, comprese le osterie. Quanti, però, hanno vissuto quella particolare dimensione di socialità rurale, oppure hanno potuto anche solo – come chi scrive – avvicinare una simile realtà da bambino, al seguito del nonno o degli zii, conserva tuttora tracce indelebili di quegli spazi, anche angusti e semplici, ma essenziali, che fungevano da palestra di vita sociale, assieme alla chiesa, alla piazza (il sagrato della parrocchiale) e alla stalla. Mi sembra di ascoltare ancora, come un lontano eco, i canti di montagna e degli Alpini che venivano improvvisati attorno a un tavolino nell’osteria del Balèta, soprattutto sul tardi, quando il vino incominciava a sollecitare intensi sentimenti, che prendevano forma nella forza della voce, a volte spinta quasi fino a squarciare la gola. La nostra abitazione era proprio lì, di fronte all’osteria del Balèta, dall’altra parte della strada, e non bastava chiudere le finestre (allora senza i doppi vetri), per isolare all’esterno quei concerti spontanei del sabato sera, che io peraltro ascoltavo sempre volentieri, cercando di individuare le voci dei singoli coristi, mentre certe volte alla mamma davano fastidio, poiché non la facevano prendere sonno. Allo stesso modo come non ricordare quei robusti giovanotti picchiare pugni a non finire sul tavolo, per ore e ore, mentre giocavano alla morra, con passione e vigore, gridando con grande energia numeri e indicandone altri con le dita della mano destra, sempre battuta a pugno sul tavolo!… Voci, suoni e rumori d’altri tempi. Frastuono e furbizia, intelligenza e forza si confrontavano nel teatro dell’osteria. Ho rivisto recentemente alcuni giovani giocare alla morra, ma non era più la stessa cosa e per essi quel divertimento rappresentava solamente una lontana imitazione di tempi andati, ma palesemente non più appartenenti.

Convivialità rurale nel prato. Centro Studi Valle Imagna. Archivi della Memoria e dell’Identità.

Al giorno d’oggi i giovani si recano indistintamente all’osteria, uomini e donne, come avviene al bar di concezione moderna, con semplicità di movimenti e forse anche qualche pretesa. Un tempo, per un adolescente, ormai già allenato da anni al lavoro attivo, entrare nell’osteria da solo, non più accompagnato dal Tata o dal fratello maggiore, significava accedere autonomamente al mondo degli adulti. L’azione aveva una precisa rilevanza sociale. Costituiva una sorta di rito di passaggio che sottolineava la transizione dell’individuo dall’adolescenza (assai breve) all’età adulta: il giovanotto si presentava così, in modo diretto e personale, davanti agli altri uomini del villaggio, soprattutto agli anziani, che rappresentavano la superiore autorità, i quali lo avrebbero “pesato”, ossia valutato e anche giudicato nei suoi comportamenti e nel modo di pensare, di fare e di relazionarsi con gli altri.

Corna Imagna. Nella piazza centrale del villaggio, davanti all’osteria del Paciola. Anni Settanta. Premiazione della gara ciclistica. Centro Studi Valle Imagna. Archivi della Memoria e dell’Identità. Fondo Edgardo Salvi

Nei primi decenni successivi al secondo dopoguerra, la frequentazione delle osterie era venuta gradualmente meno, a seguito del superamento dell’antico mondo contadino, dei suoi riti e modelli produttivi e aggregativi. Quante volte i prevosti dei nostri villaggi tuonavano parole di condanna dal pulpito contro i gestori e i frequentatori di quelle osterie che avevano introdotto prima ol vertecàl, poi il jukebox, oppure che tenevano aperto il locale, magari anche col televisore acceso, durante la dottrina domenicale pomeridiana! La condanna era ancora più grave nei confronti di quelle ragazze che si facevano attrarre da così diversi e facili costumi sociali… Il passaggio dalla centralità della dimensione collettiva della comunità a quella per così dire “moderna” ha gradualmente scartato i luoghi della tradizione e tutti quei comportamenti che facevano riferimento al vecchio mondo. Non solo le piccole osterie di contrada, ma le contrade stesse e addirittura le grandi famiglie sono state al centro di un grande terremoto sociale, che in pochi anni le ha spazzate via, sconquassate e travolte dalla scossa dirompente dell’esaltazione delle affermazioni individuali. Il progresso pareva essere finalmente giunto a portata di mano nel chiuso degli appartamenti e dei nuovi modelli insediativi delle case sparse, sganciate dal vincolo di contrada: si poteva finalmente fare da sé, senza più il freno della famiglia o il bisogno della comunità e delle sue regole e appartenenze. Il maggior comfort abitativo, con l’introduzione degli elettrodomestici, ma soprattutto con la sostituzione della comunità concreta dell’osteria con quella virtuale del televisore, velocemente entrato in tutte le case, ha determinato il definitivo scollamento col modello di vita e di organizzazione sociale preesistente.

Nella Bibliosteria di Cà Berizzi. Due anni fa.

Non è tutto oro ciò che luccica e la storia non butta via mai niente, ma conserva, semmai nasconde le esperienze sotto uno o più strati superficiali, per consentire l’emersione in qualsiasi momento di pratiche e vissuti solo all’apparenza sconfitti o dimenticati. Negli ultimi anni, come dopo un brusco risveglio dal sonno profondo nel finto progresso, con la crisi strutturale del modello produttivo industriale e insediativo urbano, che nella seconda metà del Novecento ha coinvolto grandi masse di persone, molte comunità locali sono rifiorite e le osterie stanno recuperando la loro antica funzione di luogo di incontro e di identificazione territoriale: naturalmente non sono più riservate alla sola componente maschile, ma ad ambo i sessi, alle famiglie, ai gruppi sociali, alle singole persone in cerca di un nuovo equilibrio sociale, di un benessere non solo economico, per ritornare alla dimensione dello stare insieme, in armonia con l’ambiente circostante, recuperando valori, comportamenti, modelli aggregativi che parevano essere andati perduti per sempre. Il modello tradizionale dell’osteria si rigenera negli spazi di una nuova ruralità, tutto sommato nemmeno poi così diversi da come si presentavano nel passato, e alcune antiche contrade si ripopolano attraverso l’apertura di nuove aree di pensiero e di accoglienza nel contesto rurale. Ciò è avvenuto nella contrada Roncaglia, in Alta Valle Imagna, con la riapertura dell’antica fiaschetteria di un tempo, attualmente trasformata in locanda, dove si torna a cantare e a vivere una relazione diretta e immediata con il cibo di territorio e la natura circostante alla caratteristica corte medioevale immersa nei prati affacciati sul Resegone. La medesima azione rigenerativa si è avverata nella contrada Regorda, sempre nel villaggio di Corna Imagna, con l’apertura della Bibliosteria di Cà Berizzi: qui la grande narrazione della ruralità orobica, anziché dal Tata, che immaginiamo ancora seduto nella nécia dol camì mentre con le molle riattizza la fiamma sul fuoco, col sò pistù ben risposto sóta ol sentàl, è offerta da una cospicua raccolta ordinata e fruibile di libri, giornali e riviste. Un’analoga iniziativa è in fase di attuazione nella contrada Arnosto di Fuipiano e vedrà la luce nei prossimi mesi. Il mondo rurale alza la testa per affermare non solo la sua esistenza, ma alcuni caratteri profondamente innovativi, moderni e dotati di grande capacità rigenerativa… Ancora una volta si riparte dalle contrade, dalle periferie, non dal centro. Dove? In montagna.



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Antonio Carminati

Direttore del Centro Studi Valle Imagna

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