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La festa settembrina della Madonna della Cornabüsa, quando tutti gli anni gli abitanti della Valle Imagna rinnovano i sentimenti di pietà popolare nei confronti della loro madre celeste e fanno ritorno alla Grotta, come un pellegrinaggio spirituale e culturale alle loro origini. Attraverso in automobile il villaggio di San Simù alle prime luci dell’alba, diretto alla stalla di Recüdì per prelevare stracchini e altri formaggi destinati alla vendita, godendo ancora di ciò che rimane dei festeggiamenti della vigilia e le piccole fiammelle ancora sfavillanti, immerse nella cera raccolta dentro barattoli di plastica rossa, mi indicano la strada da percorrere, non quella sulle quattro ruote, che ormai so riconoscere a occhi chiusi, ma riferita ai pensieri e alle emozioni che trascendono il tempo per viaggiare molto lontano.

Tra poco la luce del giorno annullerà il loro piccolo bagliore che rischiarava la notte e qualcuno ritornerà sui suoi passi per ritirare i lumini spenti dalle improvvise folate del venticello, proveniente dal promontorio soprastante del Cornèl, lasciando le flebili fiammelle ancora vive, mentre stanno consumando anche l’ultima riserva di cera rimasta sul fondo. Se la fiamma continua ad ardere, guai a spegnerla: sarebbe come allontanare la luce dalla nostra esistenza. Anche il più piccolo lumicino deve seguire il suo destino naturale. Soprattutto nel passato, la pratica devozionale di parà fò i lumì la sera della vigilia del festù de la Madona de la Cornabüsa, era accompagnata dall’accensione dei falò in ogni contrada della conca imagnina: in assenza di altre luci artificiali, essi spiccavano nella notte, stimolando Don Cesare Carminati, nel 1922, storiografo della Madonna Addolorata della Cornabüsa, a scrivere una pagina di letteratura tra le più belle ed eloquenti della storia recente della Valle Imagna: “Tutta la valle è un’immensa luminaria: in cima ai monti e ai colli grandi falò, simili a fari luminosi nel vasto azzurro che li sovrasta; sul pendio dei prati e dei pascoli, nella oscurità della notte, si delineano qua e là le iniziali del nome benedetto di Maria Vergine; tutte le contrade hanno il loro falò; da tutte le case si lanciano razzi che guizzano a mo’ di comete nel cielo stellato; sono illuminate le chiese, i campanili, le finestre delle case. A un tratto e in più punti la valle è rallegrata da magnifici fuochi artificiali, dai mille colori, che si alternano e si fondono. Fra tutti i punti luminosi, uno però si distingue, simile a grandiosa fontana a getto continuo, che invece d’acqua lancia in alto una pioggia dai più smaglianti colori: quel punto è la Cornabusa, il santuario di Maria. Si ha l’impressione di trovarsi in un mondo fantastico, nella valle degli incantesimi”.

Tanto i lumini quanto i fuochi oggi si notano di meno, a causa soprattutto di un inquinamento luminoso assai diffuso, in piena era tecnologica, che ha sottratto spazio al buio assoluto, illuminando la notte a giorno. Una sorta di manifesta violazione delle leggi della natura. Ma i fuochi sono anche di meno e la pratica di antica tradizione di accendere i falò per celebrare le principali feste del villaggio è venuta meno col superamento della civiltà rurale e delle sue principali espressioni popolari. L’accensione delle grosse cataste di rovi e sterpaglie, nelle contrade aveva significati bel precisi e, oltre alla valenza devozionale, costituiva una sorta di ricomposizione della comunità: il gruppo di famiglie della contrada, o di una parte di essa, in questo modo affermava la sua presenza e si confrontava con i nuclei parentali degli altri insediamenti. Soprattutto tra i ragazzi nascevano vere e proprie competizioni per offrire il fuoco più imponente, o che sarebbe durato di più. L’accensione dei falò era una forma purificazione: si brucia la parte improduttiva della natura, e con essa, simbolicamente, anche quella meno nobile dell’esistenza umana, perché l’indomani, nel giorno della festa solenne, ci si doveva presentare ordinati, puliti, rinnovati, mondi dal peccato. Ol dé de la fèsta de la Cornabüsa, infatti, besognàa ‘ndà a confesàs e fà la Cumeniù: gruppi di devoti, provenienti da tutti i villaggi della valle, raggiungevano il Santuario a piedi, sin dalle prime luci dell’alba, per l’osservanza dei doveri religiosi.

Processioni di pellegrini continuavano durante tutta la giornata. Le fiamme del grande fuoco costituivano anche una forma di riconciliazione sciale, per lasciare alle spalle il vecchio e propiziare il nuovo. Il tempo della fienagione era ormai concluso, i fienili delle stalle di norma straboccavano di foraggio con le scorte per la stagione invernale, che ormai era alle porte. I bergamini si apprestavano a scendere alla Bassa con i rispettivi armenti, mentre ai contadini del posto rimanevano da raccogliere uva, castagne e noci. Tra pochi mesi anche gli emigranti avrebbero fatto ritorno a casa e il calore delle fiamme, col pensiero riconoscente e invocante rivolto alla Madonna della Cornabüsa, teneva lontano l’inverno e tutto ciò che esso simboleggiava (il freddo, l’isolamento, la morte, la sussistenza alimentare, i pericoli della notte…), nella speranza di una quotidianità meno grama. La funzione propiziatoria del fuoco dipendeva anche dalla sua imponenza e dalla durata: tra i gruppi di ragazzi schiamazzanti nelle diverse contrade si instaurava una sorta di competizione per il falò migliore che possedesse queste caratteristiche.

Il senso di appartenenza dei singoli individui alla propria contrada, al giorno d’oggi non è più così sentito, molte relazioni sociali di prossimità si sono in parte annacquate, i tempi sono cambiati e con essi anche le modalità di lavorare e di fare festa; bambini e ragazzi socializzano diversamente e probabilmente molti di loro oggi non saprebbero nemmeno più come fare per ‘ndà a spì  e costruire la grossa catasta, pronta per essere accesa il giorno e nel momento propizi. E pensare che attualmente di spì ce ne sarebbero a volontà, pronti per essere raccolti dovunque, mentre un tempo, quando il territorio si presentava come un giardino, besognàa ‘ndà a robài – si fa per dire –  raggiungendo, armati di corlàs e seghéz, ràscc e rastèl, anche le località più distanti. Era anche l’occasione per riordinare gli ultimi ambienti rimasti sprovvisti di manutenzione e per fare un’opera di pulizia generale del contesto agricolo. Basterebbe, al giorno d’oggi, rinnovare queste antiche tradizioni per ripristinare e finalizzare aree di territorio degradate, anziché inventare di sana pianta giornate decontestualizzate del verde pulito. Durante le settimane precedenti la grande festa, gruppi schiamazzanti di bambini e ragazzi perlustravano sentieri e mulattiere, in cerca di rovi e strame da tagliare e trasportare nei pressi della grossa catasta nel luogo prescelto per il falò, che di norma era sempre lo stesso.

Il nostro falò, quello sulla Còsta de Canìt, veniva acceso sul pianoro del praticello del nonno, vicino alla tribülina dedicata alla Madonna, in posizione preminente, con affaccio sulla valle, proprio dirimpetto al Santuario della Cornabusa; quella caratteristica edicola religiosa per la circostanza veniva trasformata en d’u altarì: la nonna, dopo averla bene ripulita, provvedeva a stendere all’interno la miglior tovaglietta ricamata, sulla quale avrebbe deposto almeno u lumì con un mazzo di fiori. Qualche giorno prima, con quei pochi spiccioli raccolti e messi da parte nelle settimane precedenti, assieme ad altri compagni di contrada, m’incamminavo lungo la mulattiera selciata sino a raggiungere il villaggio di Locatello, dove si poteva crompà i rochète presso il negozietto della signora Perniceni, che a noi, allora, sembrava grandissimo e fornitissimo. Rivivo ancora oggi l’estrema felicità del ritorno a casa, a Canito, con qui due o tre bastoncini sulla cui estremità era fissato un involucro colorato, pressoché simile a una cartuccia del fucile da caccia del nonno, contenente la polvere da sparo e una miccia che sporgeva dalla parte inferiore, la quale, una volta accesa, avrebbe innescato l’accesione. Bastava poco per esser felici e nei giorni successivi custodivamo quelle rochète come fossero degli oràcoi: posti al centro delle nostre attenzioni e premure, ci facevano sentire grandi, poiché con quelle si sparava, si provocavano grandi botti, si squarciava il cielo della notte con luci sfavillanti.

I colori, il frastuono, il movimento, lo stare insieme e il condividere mozioni erano veri motivi di gioia e di festa. Mentre le donne della contrada attorno al grande fuoco recitavano il rosario, con lo sguardo rivolto verso il Santuario della valle, noi bambini vivevamo la magia di una serata indimenticabile, che sarebbe stata ricordata spesso nei giorni successivi e posta al centro di chiacchiere e rivendicazioni. Soprattutto per i più piccoli, la serata della vigilia della grande festa annuale della Cornabüsa (seconda domenica di settembre), assieme a quella della Santa Lucia (la sera del 12 dicembre), hanno rappresentato momenti magici e carichi di suggestioni, dove la fantasia non aveva limiti: la devozione popolare era rivolta nei confronti di altrettante figure femminili, la Madonna e una Santa, come per richiamare nella tradizione locale l’importanza della donna, della mamma, nell’affermazione e nella tenuta delle famiglie rurali.

Davanti al grande falò de la Madóna, tenuto sempre sotto controllo e alimentato da una persona adulta armata di forca, noi bambini attendevamo il momento propizio per sparare le nostre rochète, dopo averle preparate bene infilate, una alla volta, nel collo di una bottiglia. I più grandicelli mostravano la loro abilità nell’accenderle tenendole in mano, pronti a lasciare la presa al momento giusto dell’accensione, quando cioè il fuoco d’artificio prendeva lo slancio verso l’alto. Altri ancora, invece, usavano il carburo, facile da reperire poiché serviva anche per l’illuminazione mediante acetilene, utilizzando semplici barattoli di latta, come le lattine dell’olio Sasso, quale camera di scoppio. Insomma, senza botti non c’era festa. Sarebbero continuati anche il giorno successivo, per opera degli adulti, che incominciavano a sparare nel cielo, sin dalla mattina, i mortèr.

Durante la mia infanzia e sino a tutti gli anni Sessanta, quella della vigilia della festa della Cornabusa era una serata davvero magica, nel tentativo di sfidare e vincere la notte con le luci e i suoni provenienti dalle diverse contrade. Poi, nei lustri successivi, col disincanto provocato dalla modernità, che considerava queste espressioni di fede popolare comportamenti retrogradi, gradualmente da molte parti diverse tradizioni si sono perse. Nel tardo pomeriggio di sabato scorso, vigilia della festa della Cornabusa 2020, alla Felìsa ho incontrato casualmente Carlo: cappello alpino in testa, portato con orgoglio, e gilè in grigioverde, recante sul petto il vistoso stemma dell’Ana, se ne andava di fretta. L’ho fermato per un veloce scambio di battute:

– Endó ‘ndét, ‘ssé de córsa? Mè ‘ndà sö a la Bötèla a ‘mpessà sö ol falò!… –  gli ho detto, con un non troppo malcelato cenno di ironia.

– Ah… l’è finìda la stòria dol falò sö a la Bötèla!… – mi ha risposto determinato. Ora lui non abita più nell’antica contrada sul monte, a levante di Canito, disposta sulla dorsale di destra dell’alta Al dol Gandì, ma con la sua nuova famiglia vive abitualmente a Selino Basso, dove gli Alpini della valle organizzano tutti gli anni una fiaccolata diretta al Santuario. C’è ancora il fuoco a caratterizzare la nuova manifestazione di devozione popolare e di festa, portato in mano con la torcia durante una processione civile notturna.

Doriana, invece, la bibliotecaria con la quale ho trascorso il pomeriggio a programmare le prossime attività del Centro Studi,  avviando pure l’impaginazione di un nuovo libro, si appresta a raggiungere sua figlia, ancora piccola, a Berbenno, dove l’attende, entusiasta e assai coinvolta, per la preparazione e l’imminente accensione del falò. Caterina è una bambina vivace e si appresta a vivere, a suo modo, da protagonista, la magia di questa serata. In quel rigoglioso entusiasmo pieno di vita, difficile da trattenere, ripercorro la mia infanzia e ritorno col pensiero e diversi sentimenti a quelle antiche espressioni di libertà, felicemente interpretate dalla fantasia e dalla vivacità di un bambino. Anche Doriana si lascia catturare dalla dimensione emotiva di un momento particolare – lo si respira nell’aria – consapevole che i bambini sono lo specchio della nostra vita passata e con le loro azioni ci invitano inconsapevolmente a mettere da parte, almeno ogni tanto, il nostro ego razionale, per tornare a essere ciò che eravamo. A volte basta poco per liberare tensioni, entusiasmi ed emozioni sopite. Risalgo l’altro versante della valle, ma la stanchezza anche questa sera ha il sopravvento e non so sin quando avrò la forza di resistere. I miei figli sono grandi e pure loro hanno perso l’afflato per il falò della Cornabusa. Mirella però ha preparato alcuni lumini che accenderà nella notte, collocati sul muro di recinzione e i pilastrini all’ingresso della nostra casa…

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Antonio Carminati

Direttore del Centro Studi Valle Imagna

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