Timore e tremore di Soren Kiekegaard. Lezione di Umberto Curi
L’opera suscitò interesse nella sua Copenaghen e accrebbe la sua notorietà. Soren Kierkegaard stesso considerava Timore e tremore il libro migliore. Sarebbe bastato, diceva, per rendere immortale il suo nome. Lo pubblicò nel 1843, anno intenso e significativo della sua vita. Nel 1837 aveva conosciuto Regina Olsen. Si erano piaciuti. Lui aveva chiesto al padre di lei il permesso di fidanzamento. Tutto sembrava procedere per il matrimonio quando Soren chiese l’interruzione del rapporto. La voce corse per tutta Copenhagen, tante le ipotesi, rimase il mistero sul perché.
La risposta era nel libro, tutto incentrato sul racconto biblico del Sacrificio di Isacco. Ad Abramo l’angelo aveva annunciato la nascita del figlio lasciandolo incredulo: “Io e tanto più mia moglie Sara abbiamo raggiunto un’età in cui non è più possibile avere figli”. Eppure la promessa di Dio parlava di una discendenza numerosa, “ ... come le stelle del cielo”.
Abramo credette. Per fede aveva lasciato la sua terra, per fede accolse quella promessa. Continuò a credere nonostante il tempo passasse; lui e Sara invecchiavano. Dio premiò Abramo, mantenne la promessa e nacque Isacco. La gioia non durò però a lungo. Dio mise di nuovo alla prova Abramo: “Prendi il tuo figlio, il tuo unico che ami; vai al paese di Moriah e offrilo in olocausto sopra il monte che io ti indicherò”. Una pazzia! Ma Abramo obbedì (da audire, prestare ascolto) e rispose: “Eccomi”. Fu un viaggio di tre giorni. Quanti pensieri saranno passati per la sua mente! Di nuovo tutto perduto? Abramo credette, non dubitò. Non aveva l’animale da sacrificare, Isacco lo chiese. Abramo rispose: “Dio provvederà” e continuò a credere. Credette anche quando alzò il coltello finché la mano dell’angelo lo fermò. Sulla montagna di Moriah Abramo non dubitò e Diò gli restituì il figlio e confermò la promessa: “ ... numerosa sarà la tua discendenza”.
Il rapporto con Regina sarà di perdita o i due si ritroveranno nella dimensione dell’eternità? Si era chiesto Kierkegaard. Il miglior commento della drammatica storia biblica è il film di Carl Theodor Dreyer, anche lui danese di Copenaghen Ordet – La parola (1954). Tre sequenze guidano alla comprensione. Si parte dal dissidio sorto tra i patriarchi di due famiglie vicine, in amicizia da anni, a proposito del modo di interpretare le Scritture. Il dissidio è così lacerante da interrompere il progettato matrimonio dei rispettivi figli.
Nella prima sequenza il nuovo pastore arriva in visita di cortesia nella famiglia Burgen. Come suoi parrocchiani vuol conoscerli. Trova il solo Johannes, giovane studente di teologia, trasandato nell’aspetto a confronto con l’impeccabile abito dell’ospite. Johannes dalle prime risposte lascia il pastore sconcertato. Si dichiara muratore, o meglio costruttore di edifici che gli uomini si rifiutano di abitare preferendo le loro caverne desolate. Alla richiesta del nome risponde: “Il mio nome è Gesù”: “Come puoi dire così?” chiede il pastore scandalizzato. Ma Johannes continua parlando di uomini che credono in miracoli passati e non ne sanno vedere la presenza oggi; così i miracoli non accadono più. Parla di ministri di Dio che non ascoltano la sua parola e tantomeno si preoccupano di diffonderla. Parole da folle, sacrilego accusatore della Chiesa e dei suoi ministri che fanno pensare alle furiose polemiche di Kierkegaard con le autorità della Chiesa danese da lui accusata di mondanità e conformismo.
La seconda sequenza mostra una donna immobile nel letto. Si tratta della moglie dell’altro figlio del vecchio Burgen. Il suo parto è stato travagliato. Ha avuto un collasso. “Ingrid è morta” è prima un sussurro incredulo e poi un lamento sconsolato che si comunica tra i familiari presenti. Di nuovo appare il giovane Johannes; inutile farlo partecipe, sembra la reazione comune. Johannes parla, con la sua cantilena, e le sue parole creano ancora una volta scandalo: “Il Signore dà il Signore riprende, sia fatta la sua volontà” e poi “Ingrid dorme” e ancora “se avrai fede vedrai quanto è grande il Signore”. Sono frasi stonate, che fanno a pugni con l’evidenza, senza senso, farneticazioni di un povero ragazzo via di mente. I presenti parlano concretamente, si scambiano opinioni che sono fatti: “E’ morta nel sonno”, “il dottore ha confermato” “le labbra e gli occhi sono vitrei”. Johannes imperterrito continua: “Io il Cristo, sono venuto e un giorno tornerò”, “Il Signore dà il Signore riprende, sia fatta la sua volontà”. La dissonanza esplode e quando Johannes ha un mancamento accasciandosi privo di sensi tutti temono il peggio. Al “ … ma no! è solo svenuto” dice uno, un sollievo per un’altra tragedia scongiurata? E un altro familiare commenta – o è forse un pensiero comune? – “ … gente come lui non muore; sarebbe stata una grazia”.
L’ultima sequenza riguarda il momento del commiato. Ingrid è adagiata nella cassa che sta per essere chiusa. I familiari ancora intorno. E’ venuto anche il patriarca dell’altra famiglia a partecipare al dolore. La tragedia li ha conciliati. C’è anche il pastore che invita alle preghiere di rito. “Addio Ingrid” ripete il marito. Ma ancora Johannes sopraggiunge. Notano il suo volto trasformato: “Ha forse ritrovato la ragione?”. Si accosta alla bara. Lo lasciano fare. Le sue parole sono di rimprovero: “Nessuno ha pensato di chiedere a Dio di rendere Ingrid?” E ancora: ”Perché nessuno crede veramente?” Solo una bambina, figlia della donna morta, lo guarda con fiducia e speranza. “Il mondo è marcio, i bambini sono gli unici puri” dice Johannes; e aggiunge: “ … la tua fede mi darà la forza necessaria?”. La bimba gli sorride. Johannes preso l’aspetto del celebrante dice: “Ti scongiuro Signore, permettile di tornare alle sue creature” e poi: “Ingrid, nel nome di Cristo, ti ordino: alzati!” La macchina da presa inquadra il volto di Ingrid che il bianco del velo e delle tende fa risplendere. I suoi occhi si riaprono, come risvegliandosi dal sonno. Alle parole di Johannes ormai il protagonista la meraviglia dei presenti: “Allora Dio è sempre lo stesso, eterno e immutabile”. La donna risvegliata e sorridente è sostenuta dal marito al quale chiede del bimbo che doveva nascere. Una fede ritrovata: “Si cara, egli vive in cielo accanto a Dio”. “Accanto a Dio?” chiede la donna. E lui: “Sì Ingrid, ha ritrovato la sua sede”.
Sede che lui, Soren Kierkegaard, non ha trovato o non ancora in Timore e tremore. Tutto è possibile a Dio, la fede va oltre le spiegazioni, è una passione, un miracolo. Lui, Soren, o Johannes de Silentio come si firma, non ha avuto fede, non la fede di Abramo. E’ ricaduto su se stesso, non si è rassegnato né ha voluto sposare Regina. Individuo lacerato è Kierkegaard come la sua filosofia, insieme volontà di trascendenza e immanenza, insieme bene e male, cielo e terra, vita e morte, eroe tragico che non trova né accetta la sintesi pacificante (tantomeno quella di Hegel).
Bergamo Liceo Mascheroni, 5 marzo 2024