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Il successo superscontato della prima del Teatro alla Scala suscita lodi sperticate, applausi che non finiscono mai, consensi del colto e dell’inclita, per non parlare dei VIP i quali, oltre che sfilare e sfoggiare abiti concepiti per l’elefantiasi del loro ego, non sono in grado di elaborare un pensiero minimo che sappia esprimere un piccolo giudizio privo dei soliti luoghi comuni. Merce rarissima la riflessione. Rintracciabile soltanto nella sempre più ridotta (in termini di spazio concesso da carta stampata quotidiana e specialistica) critica musicale. Spesso anch’essa però plaudente e consensuale con gli uffici stampa da cui, peraltro, ricevono assist e suggerimenti quasi mai disinteressati ancorché accolti con sussiegosa complicità.

Un esempio lo troviamo anche nella nostra Bergamo dove tutte le iniziative musicali del massimo teatro lirico, vale a dire il Festival dedicato a Donizetti, vengono abitualmente acclamate senza mai una riga di dissenso critico (ovvero costruttivo) sia dalla stampa che dai media locali. Tale entusiastica  e, appunto, acritica assuefazione se da una parte ha imposto il Festival donizettiano come manifestazione a metà strada tra la spettacolarità artistica (quella on the road) e la mondanità esclusiva degli ambienti più chic, dall’altra ha trasformato il melodramma di Donizetti in successo distopico per le multiformi contaminazioni non solo artistiche e esagerazioni autoreferenziali per chi lo promuove.

Tornando all’evento scaligero (il fiore all’occhiello dell’opera lirica italiana nel mondo) non si possono eludere alcune considerazioni critiche in senso, per quanto ci compete, costruttivo. Considerata, come dicevamo in apertura, la pressoché assenza della critica musicale che è andata sempre più riducendosi dai quotidiani d’informazione, oltre che per la progressiva estinzione di riviste specializzate. Per l’ascoltatore comune è rimasta la diretta televisiva, fatta come sempre di lodi enfatiche e scontate anche perché lasciata in balia di presentatori la cui competenza musicale risulta inversamente proporzionale alla loro popolarità mediatica.

A noi sembra che una messa in scena del teatro alla Scala, che costituisce l’apice artistico per eccellenza nel suo genere, meriti ben altro dei soliti luoghi comuni elogiativi che i vip e la creme in passerella nel foyer scaligero ostentatamente accalappiati e diffusi in diretta. Troppo facile e scontato, persino inutile vippeggiare al fantastico, eccezionale e chi più ne ha più ne metta. Ma ci mancherebbe altro che un’opera messa in scena alla Scala fosse meno che stupefacente e, sotto certi aspetti, persino perfetta. Lo sappiamo o no che ogni allestimento del Piermarini richiede un gruzzolo di qualche milione di euro? Miliardi delle vecchie lire per intenderci. Coi quali si potrebbero costruire ex novo scuole, ospedali e infrastrutture varie.

Ben venga che anche la cultura per essere fatta come si deve richieda grandi investimenti finanziari, magari non solo per la Scala. Allora, chiaro che alla Scala la messa in scena è straordinaria, i costumi e le scene mozzafiato, i cantanti dall’ugola d’oro.  Lo scandalo è tutto il resto. Cioè le centinaia di istituzioni musicali nazionali e le migliaia di giovani musicisti regolarmente laureati dai conservatori di stato e altrettanto regolarmente disoccupati, che fanno la fame o elemosinano sovvenzioni e contributi per diffondere e difendere musica e opera sul territorio e nelle realtà meno fortunate di Milano e della Scala.

La seconda riflessione si concentra lo strapotere dei registi che negli ultimi decenni ha progressivamente surclassato l’aspetto prettamente musicale (il melodramma questo è) per imporre visioni e idee che spesso non solo esulano totalmente dal contesto, ma stravolgono contenuti e drammaturgia espressamente indicate e quindi suggerite dal compositore stesso. Si è arrivati al punto che la musica è secondaria alla regia, quando dovrebb’essere esattamente l’inverso. Ora, che i registi se ne infischino dei direttori d’orchestra cui spetta di diritto professionale e artistico la conduzione dell’opera. Calpestare senza colpo ferire la volontà musicale e drammaturgica dell’autore è semplicemente inammissibile. L’unica, quasi patetica e impotente, reazione è quella di qualche, sempre più raro, critico musicale o quella pusillanime del pubblico, meglio del loggione. Il quale però viene considerato, da qualche gazzettiere di provincia con l’aria saputella – come è capitato di leggere sulla stampa locale – miope  difensore del vecchio, della tradizione solo perché colpevole di aver fischiato la regia. Contrapponendo il melomane passatista al giovane aperto alle innovazioni più spericolate e tecnologiche. Sulla base di quali parametri… non è lecito sapere.

Solo perché uno (!), intervistato all’uscita del teatro, ha risposto: “Bella la regia“. Che poi la questione vera non è se un allestimento debba piacere ai giovani o agli anziani. La questione è il contenuto, il pensiero, la costruzione artistica di un’opera d’arte. Qualsiasi. Non solo musicale o lirica. E la sua riproposizione credibile e attuale, non solamente spettacolare o, come piace a certi, tanti, registi pseudoedonistica. Se se ne cambiano i connotati e le traiettorie creative cambia tutto. Non è più il Machbeth di Verdi o di Shakespeare, ma di Livermoor. Come nella fattispecie. E puntualmente cronisti e giornalisti inconsapevoli (vedi diretta televisiva e leggi alcune recensioni del giorno dopo) parlano inavvertitamente di grande successo del Macbeth di Livermoor e persino di Chailly. Il che parrebbe meno grave essendo lui il direttore d’orchestra, quindi l’interprete del dettato verdiano. Peraltro, a nostro modesto avviso, parso brillante sì, e trasparente -grazie all’alta qualità dell’rchestra più che altro – ma superficiale e poco psicologicamente introspettivo e materico. Oltre che subalterno alle anacronistiche scelte registiche.

Col risultato che la componente musicale (prevalente di diritto e di fatto, non scordiamocelo) pare andare in una direzione coerente e specifica, mentre la componente registica pare lanciata verso tutt’altra e capricciosa direzione, ad uso e consumo del originale (magari) ideatore. Senza poi tener conto degli altissimi costi che tali scelte impongono. Inutili pertanto e, come avviene sempre più spesso, contestatissime. I veri registi, i grandi (uno su tutti Giorgio Strehler) insegnano che razionalità e semplicità, unite alla fedeltà drammaturgica del testo, risultano vincenti e appetibili persino dal grande pubblico. Oltre che molto più economiche (destinando le risorse così non sprecate, per altri eventi culturali).