C’è tanta voglia di ripartire e di rimettersi in gioco con lo strumento che a noi Bergamaschi è più congeniale, quello del lavoro. Ciascuno nel proprio campo e con le specifiche competenze di cui è abile maestro e artigiano. Le regole del distanziamento sociale e lo slogan del “Restate tutti a casa” hanno sospeso gran parte delle attività sociali ed economiche e se, nel periodo ordinario di questa primavera calda e assolata le nostre contrade erano popolate solamente dagli anziani, dalle casalinghe e dai pochi allevatori rimasti, quest’anno tutte le abitazioni sono costantemente vissute nella quotidianità da bambini e ragazzi, muratori e dalle altre categorie di lavoratori non impegnati in attività essenziali.
Quassù, in montagna, pur partecipando al dramma nazionale e mondiale causato dalla grave pandemia, si sentono meno gli effetti dell’isolamento: nessuno è nullafacente e anche i muratori, non potendo stare con le mani in mano per la loro indole, hanno colto questa opportunità per rifare il muretto della balza terrazzata, rivestire il parapetto esterno della recinzione di casa, effettuare i tanti piccoli lavori di manutenzione e tenuta della casa e della stalla, del prato e del pascolo. Il lavoro, come sempre, non manca. Non potendo essere monetizzato, viene per così dire capitalizzato, come avveniva nei secoli addietro, in opere di miglioramento fondiario. Tornano così alla ribalta antiche tradizioni artigianali, ma soprattutto l’attuale situazione di crisi consente di aprire una grande riflessione sul mondo del lavoro, in relazione ai diversi aspetti della vita in montagna, per cogliere, tra le altre cose, anche gli elementi essenziali di una cultura rurale che per lungo tempo ha caratterizzato il territorio e gli insediamenti umani.
Quassù, in montagna, pur partecipando al dramma nazionale e mondiale causato dalla grave pandemia, si sentono meno gli effetti dell’isolamento: nessuno è nullafacente e anche i muratori, non potendo stare con le mani in mano per la loro indole, hanno colto questa opportunità per rifare il muretto della balza terrazzata, rivestire il parapetto esterno della recinzione di casa, effettuare i tanti piccoli lavori di manutenzione e tenuta della casa e della stalla, del prato e del pascolo. Il lavoro, come sempre, non manca. Non potendo essere monetizzato, viene per così dire capitalizzato, come avveniva nei secoli addietro, in opere di miglioramento fondiario. Tornano così alla ribalta antiche tradizioni artigianali, ma soprattutto l’attuale situazione di crisi consente di aprire una grande riflessione sul mondo del lavoro, in relazione ai diversi aspetti della vita in montagna, per cogliere, tra le altre cose, anche gli elementi essenziali di una cultura rurale che per lungo tempo ha caratterizzato il territorio e gli insediamenti umani.
Alessio, il titolare dell’impianto di distribuzione di carburante a Selino Basso (sant’Omobono Terme), proprio ieri mi trasmetteva la sua meraviglia nell’avere constatato, durante una passeggiata in montagna – da Selino Alto salendo verso San Piro e proseguendo poi in direzione di Piazzacava e i Tre Faggi – come diverse località di monte siano state ben recuperate, salvate dall’oblio, restituite alla loro antica bellezza impressa dai costruttori originari: i prati falciati, i pascoli ben tenuti, rastrellati e soprattutto pascolati, le stalle “riordinate”, come gran parte delle infrastrutture rurali di monte (fontane, sentieri, mulattiere, cappellette votive, staccionate, siepi e muretti divisori…), preziose e insostituibili testimonianze della forte appartenenza di queste popolazioni alla montagna, la loro terra del cuore. Nessun manufatto, grande o piccolo, è stato frutto del caso, bensì il prodotto di un’idea creativa immersa nella bellezza del Creato, sedimentata nel pensiero e attuata gradualmente, col lavoro di braccia potenti e tenaci. S’intuisce la continua ricerca di una condizione di maggior benessere sociale ed economico e sorprende la capacità di adattarsi e di rispondere in modo adeguato alle diverse circostanze. La valutazione dei rischi, nei luoghi della vita del lavoro, e il risparmio di territorio e di fatiche umane, comunque sempre elevate, hanno modellato un ambiente umano finalizzato a sostenere la vita delle famiglie rurali. Nelle loro opere si legge una visione positiva di ambiente e la costante ricerca di un corretto equilibrio nel trovare soluzioni utili, concrete ed efficaci, di fronte alle varie esigenze di sostentamento e miglioramento della qualità della vita e del lavoro. Ambienti a misura d’uomo trasmettono sentimenti positivi che aiutano a star bene. “Ecco, qui mi sento come a casa!…”, direbbe Davide Rampello. La fiducia, l’ottimismo, la capacità di fare, il coraggio di osare, i legami familiari e sociali sono riferimenti importanti del benessere personale, ci aiutano a non smarrirci di fronte difficoltà della vita, ma a cercare sempre una soluzione. C’è sempre una soluzione, anzi sono proprio i momenti più difficili e di crisi che ci aiutano a tirare fuori tutta la nostra grinta, per emergere e continuare a respirare, per cercare e trovare nuove strade.
Davide Rampello, nell’ultima puntata della sua rubrica Paesi e Paesaggi (Striscia la notizia di venerdì 17 aprile), ha posto al centro della sua indagine la figura di Carlo Rota, ol Carlì, uno degli ultimi bergamini e cultore dell’antica arte del lavorare il latte crudo per la produzione degli stracchini, formaggi nati negli allevamenti zootecnici di monte, nelle antiche stalle e case di pietra di abili allevatori, montanari e casari, molti dei quali dediti alla transumanza stagionale. Formaggi che respirano di fieno e di erba, stalla e pietra, anzi solidi come la pietra, espressioni di una radicata tradizione contadina, un tempo vero oro per gli abitanti di queste nostre vallate. Venerdì prossimo, 24 aprile 2020, sempre su Striscia, il noto direttore artistico e difensore dei beni culturali diffusi di un Paese, il nostro, straricco di patrimoni veri e autentici (ambientali, alimentari, paesistici, storici, artistici,…), torna idealmente in Valle Imagna, stimolato dal film-documento NATI DALLA PIETRA girato dal regista Michele Milesi e prodotto dal Centro Studi Valle Imagna. Davide Rampello è attratto dagli ambienti umani che hanno storicamente ospitato gli stracchini, dove cioè questi straordinari formaggi sono nati, cantine e fundì, casère e cà dol làcc,… ma anche semplici cucine rurali, scaldate dalla viva fiamma del camino: lì gli stracchini erano di casa, anzi erano membri della famiglia, vivevano dell’accoglienza e delle vicende quotidiane del gruppo parentale. Sono le case e le stalle di pietra della Valle Imagna e gli altri numerosi manufatti di un’edilizia rurale diffusa e affermatasi nei secoli scorsi.
Il prezioso materiale lapideo è presente in grande quantità nel sottosuolo della Valle Imagna, con notevoli affioramenti soprattutto a mezza costa tra i villaggi di Locatello, Corna Imagna e Berbenno, sul versante orografico sinistro e meglio esposto a mezzogiorno, arricchito da numerose infrastrutture agrarie di monte a servizio delle coltivazioni e dei piccoli allevamenti zootecnici. Estratta dagli abitanti grazie a numerose cave di servizio, oggi in gran parte dimesse, tale risorsa è stata sempre utilizzata per costruire i luoghi dell’abitare e del lavorare. L’abbandono generalizzato delle cave, avvenuto nei recenti anni Sessanta, a seguito dell’introduzione massiccia nell’edilizia di altri materiali prodotti altrove e realizzati in serie, soprattutto con l’utilizzo del cemento armato, ha determinato uno scadimento complessivo dell’edilizia tradizionale. Nello stesso tempo anche la cultura zoo-casearia di monte ha subito un forte attacco dalla modernità, dalle industrie lattiero-casearie e dalle produzioni intensive. In quel periodo, con un picco negli anni Ottanta del secolo scorso, si è verificata una frattura tra i mestieri di möradùr e pecaprìde e le nuove professioni settorializzate in campo edilizio, tra le antiche attività di bergamì e casèr e i grossi caseifici di pianura o di fondovalle, che hanno costretto molte piccole attività casearie a chiudere e stravolto i modelli insediativi tradizionali. I centri produttivi hanno per così dire staccato la spina dalle risorse locali presenti in natura e dalle esigenze reali del territorio.
Un tempo, piccole “cave di prestito” sorgevano un po’ dovunque in valle, in prossimità dello scavo per le fondamenta della nuova casa o della stalla. Il lavoro veniva fatto rigorosamente a mano, con sapù e badìl, lira e massa, senza contare le giornate di lavoro svolte direttamente dal contadino-costruttore-artigiano-progettista, impegnato in prima persona nella nuova costruzione. La pietra e il legno sono stati i materiali principali utilizzati per la realizzazione degli edifici destinati alla residenza, all’allevamento del bestiame e al ricovero del foraggio, secondo una tecnica costruttiva avvalorata dalla tradizione e perfezionata da generazioni di mastri muratori, cavatori e cesellatori di pietre. I materiali venivano selezionati sul campo dagli agenti atmosferici nel corso di alcuni anni, prima del loro impiego effettivo. Pride e piöde hanno caratterizzato tutta l’architettura originaria della Valle Imagna, sin dai primi insediamenti stabili risalenti al periodo medioevale di cui è rimasta traccia. Le grosse lastre di pietra del tetto, utilizzate anche in Valle Taleggio e a Morterone, sono posate quasi orizzontalmente, poggianti l’una sopra l’altra e insellate nell’orditura portante della capriata, come le pedate di una scala. Le piöde superano anche dieci centimetri di spessore e, squadrate sulla testata, possono avere una superficie sino a mezzo metro quadrato, specialmente in gronda e sulla trave di colmo. I pecaprìde, abili artigiani della pietra, veri e propri cesellatori, ma pure maestri scultori, hanno sviluppato nei secoli attitudini e manualità particolari, introducendo uno stile edilizio specifico. Hanno elaborato modelli idonei a costruire manufatti architettonici di pregio ed elementi decorativi di artigianato artistico di indubbio valore, quali mensole, camini, contorni di aperture, tavolini, altari, lapidi funerarie, …
L’insediamento abitativo e produttivo della contrada in Valle Imagna nasce quale espansione della primordiale cà e quest’ultima era normalmente abbinata dalla stala. Prevaleva l’attitudine del singolo ad associare le proprie vicende a quelle della famiglia nella medesima contrada, poiché da tali relazioni egli traeva il sostegno necessario per “tirare avanti” e superare le avversità. Le case, costruite l’una affiancata all’altra, quando lo spazio era prezioso, nell’alternanza con stalle e fienili, edifici quasi avvinghiati fra loro, custodivano e sviluppavano una molteplicità di relazioni tra uomini, animali e prodotti offerti dalla natura circostante. Cà e contrada hanno rappresentato lo spazio vitale della famiglia rurale, che tramandava di generazione in generazione attitudini e credenze, professioni e costumi. Uno stile edilizio, insediativo e relazionale tanto originale quanto funzionale. Stile edilizio e stile caseario identificavano un format esistenziale che nasceva e si esauriva all’interno di spazi essenziali. Non solo case e stalle, bensì anche chiese, ponti, mulattiere, tribüline, fontane, muretti a secco dei terrazzamenti colturali e tanti altri esempi di edilizia rurale hanno contrassegnato la vita e il lavoro dei contadini su questi versanti.
Stile caseario e stile architettonico restituiscono dignità a una tradizione insediativa particolare e ai suoi protagonisti, bergamì e casèr, pecaprìde e möradùr, che possiedono i segreti del latte e dei suoi derivati, delle piöde e delle pride e ne traducono i significati attraverso azioni qualificate e pratiche di conservazione e valorizzazione dello stracchino e della pietra. Le pietre della Valle Imagna, con le loro esemplari architetture, e gli stracchini, nelle diverse forme quadrate e rotonde, si animano di vita nei volti e nelle azioni di Battista e Piero, di Gelsomino e Luciano; si riflettono nell’amore di Don Amadio Moretti per la sua chiesa di Fuipiano, che ha voluto ben conservare “ad ogni costo”; si traducono nella stalla e nella casa di pietra del Carlì, dove il bravo bergamino alleva le sue mucche e produce lo stracchino all’antica, memore della lezione del nonno che, quando il giovane allievo non lavorava bene il latte, dava una “carezza” sulle mani con la baslèta…