Walter Benjamin, il compito del traduttore. Lezione di Luca Illetterati.
Nel 1944 l’ebreo Walter Benjamin muore in modo tragico sul confine franco-spagnolo nel tentativo di fuggire dall’internamento nei campi di sterminio. Non ha scritto opere sistematiche ma i suoi saggi sono formidabili. Quello al quale il titolo della conferenza si riferisce riguarda la traduzione. Pubblicato cent’anni fa non perde di attualità.
Per lui tradurre è confrontarsi con un’alterità. Non è solo un lavoro linguistico, per rendere un testo accessibile a chi non parla la stessa lingua. La traduzione è un fatto etico, spiegherà più ampiamente Paul Ricoeur, una forma di vita. Nel mondo babelico in cui siamo, di individui continuamente in conflitto, minacciati di essere assorbiti o propensi a dominare, dobbiamo imparare a vivere nell’abito del traduttore. Troppi gli equivoci e le incomprensioni in cui incorriamo. La traduzione è una pratica di ospitalità, richiede sforzo per capire e un riguardo per farsi capire.
Quando si traduce un testo si allarga il vocabolario, nuove coloriture vi entrano e si produce una crescita culturale (Bildung) di sé. Ci rendiamo meglio conto della nostra stessa lingua, della sua ricchezza e dei suoi limiti. Tradurre potrebbe far pensare ad un lavoro meccanico come potrebbe essere una serie di istruzioni. In cerca dell’equivalente si sostituisce ad una parola quella corrispondente dell’altra lingua. Come fa il traduttore automatico di internet.
Pensiamo alla poesia. Non tanto rilevante il contenuto, non si tratta di perifrasi. L’Infinito di Leopardi si ridurrebbe a poca cosa: una siepe, lo sguardo che va oltre, qualche immagine che torna. Rilevante invece è il ritmo, sono le pause, i suoni delle parole, gli accostamenti, le immagini che si rincorrono. La pura informazione è inessenziale. La poesia non ha una funzione utilitaristica come potrebbe essere un foglietto delle istruzioni, ma evoca. Non è un guardar fuori o descrivere, indicare, ma sviluppare un che di interno al testo. Nietzsche parla di inattualità, un approccio che si scosta dal pensiero dominante e si dà per scontato, attenti invece a cogliere le particolarità, le dissonanze, ciò che l’accostarsi all’altra lingua mette in evidenza.
Ogni testo ha una sua traducibilità. La vera traduzione è per i testi impossibili, ostici, opachi. Lì il traduttore è messo alla prova. I classici devono sempre essere ritradotti, per non perdere l’essenziale che cambia col tempo. Mai esauribili e sempre attuali, viventi che hanno bisogno di nuove forme. Dietro il testo c’è l’autore e il suo modo di vedere. L’opera sopravvive se trova nuova vita. Alexander von Humboldt parla di lingua come visione del mondo. La lingua è il modo con cui un popolo interpreta il mondo. Studiando la lingua di una popolazione indigena scoprì che aveva una grammatica semplice, e faceva l’esempio dell’articolo, un articolo determinativo per i viventi, indeterminativo per le cose, per un gatto usava “il”, per il bicchiere usava “un”. Rispecchiava il modo dei parlanti di vedere la realtà. Pensiamo ai significati simbolici del mangiare, del pane o dell’olio nelle culture mediterranee.
Benjamin parla di concezione borghese della lingua, secondo la classe sociale in cui ognuno si muove e parla mentre fuori le parole assumono altri sensi. Al traduttore spetta un compito di redenzione. Libera il testo dalla lingua originaria per trasferirlo in un’altra con le possibilità che questa offre. A volte la traduzione riesce a portare il testo ad un livello superiore.
Si può giocare sulle parole tradurre e tradire: tradere era la consegna delle armi da parte dello sconfitto, ma traditor era anche chi consegnava i testi sacri all’autorità in segno di abiura. Tradurre è un tradimento nel senso che lo fa uscire da una comunità chiusa per affidarlo ad un’altra comunità. Lo trasforma. Lutero ha tradotto la Bibbia rinvigorendola con il suo tedesco oltre al fatto di aver dato una nuova lingua ai tedeschi. Non più gesto esecrabile ma gesto eroico.
Il testo vuole sopravvivere. Ogni testo ha in sé i germi di trasformazione. Rimanda all’origine, all’autore che l’ha ideato ma cerca uno sviluppo, muove per una seconda vita. Opera una trasformazione, contiene dei germi che l’autore non aveva considerato. Il compito del traduttore è ricuperare ciò che rischia di perdersi. Pensiamo al personaggio Giuda che ha avuto un certo successo nella letteratura. Giuseppe Berto (La Gloria 1978) vede in Giuda uno strumento di Dio per salvare l’uomo. Il Giuda di Amos Oz è colui che con la propria morte rivela la divinità.
Bergamo Liceo Mascheroni, 4 dicembre 2023