Anche oggi ho raccolto le castagne a Torre de’ Busi. Quanto basta. Era un atto dovuto. Erano sulla strada, piccole, le prime. Le bollirò. Sarebbe stato uno sgarbo al bosco che in passato mi aveva sempre regalato la mezza borsa da portare a casa con orgoglio. Il mio lavoro non scolastico. Le stendevo al sole. Le bucavo con il coltello: “attento alla punta!” mi dicevano. Salivo nel solaio a prendere la legna “fine”. Accendevo il pezzo di giornale e via la fiamma si alzava. Agganciata la padella alla catena del camino, iniziavo le manovre. Era un gioco di abilità, far saltare le castagne e farle scorrere. Quando scoppiavano – “perché non le hai bucate bene!” – rimettevo quelle cadute fuori attento a non scottarsi. Non dovevano annerirsi. Nel frattempo andava preparato il sacco di iuta e, per coprirle, le foglie di verza prese dall’orto “che danno sapore”. Un quarto d’ora e si rovesciavano sul tavolo. Bisognava sbucciarle in fretta mentre erano calde. Qualcuna si mangiava, le altre erano da lasciare a che era al lavoro.
Le ho raccolte sopra Torre de’ Busi. Una volta c’era la funivia che portava in Valcava, la prima funivia a Bergamo. Nella stazione di partenza ora c’è la scuola. In mezzo alla valle sta sospeso su uno spuntone roccioso San Michele. Irresistibile il suo richiamo a visitarlo. Resisterà nell’incessante fuga dalla montagna e dal proliferare di case nuove e nuovi residence? “Hanno usato San Michele come set del film, Casomai di Alessandro Alatri” mi ricorda una signora di mezza età per una tonica passeggiata mattutina. Racconta la storia di una coppia di Milano a cui piace l’idea di sposarsi in quella chiesa tanto suggestiva. Il prete che trovano a riparare la chiesa è d’accordo. Farà una predica che crea scompiglio tra gli invitati. Il matrimonio è una scommessa o meglio una sfida. Si tratta di trovare un’intesa, fidarsi l’uno dell’altro come due arrampicatori in parete o una coppia di pattinatori su ghiaccio.
La mulattiera prima scende, alla fine risale perché la Chiesa sta proprio sul cucuzzolo, tra due rivi che scorrono sotto. Dal porticato non si passa, bisogna aggirare la Chiesa. Il sagrato in pieno sole è tra una ancora ridente, seppure abbandonata, casa parrocchiale a sinistra, e l’Oratorio di Santo Stefano a destra, “sapientemente restaurato dalla Sovrintendenza”. Sono stati riportati alla luce diversi affreschi databili ai primi anni del 1400 e raffiguranti Santi e Madonne tra cui colpisce “per la sua bellezza e umanità una Madonna del latte”. Con disappunto leggo su un manifesto che nella trascorsa domenica ci sono state visite guidate.
“Non mancate di passare da Castello Fracassetti” – ci raccomanda la signora, anche questo rivendicato come dimora del celebre personaggio “Innominato” dal Manzoni.
Il bosco comincia a perdere il verde. Appaiono spruzzatine gialle, segnale dell’incipiente autunno. Sembra una foresta che tutto ingloba. Un tempo i castagni erano evidenti, distanziati, il sottobosco pulito, i casolari sparsi quasi con regolarità. A far castagne bisognava stare alla larga dalle case, attenti ai padroni. Si rovistava con il bastone tra le foglie dei ben tracciati sentieri, alla base dei tronchi, ai bordi dei prati scoscesi. Ce n’era a sufficienza. C’era anche il rischio di confondere un legno secco con una vipera in via di letargo, come una volta mi è capitato.
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