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Merita non molte parole lo spettacolo (altro che opera lirica) Raffa in the Sky. Se opera è stata, secondo il dictat degli ideatori, è parsa tutt’alpiù una realizzazione schizofrenica di oniriche, ma non solo, frustrazioni ancora da sublimare. L’operazione del regista (di una sostanza concettuale al limite dell’amatoriale), per cui la realtà è aumentata (o diminuita, giudichi il lettore), si è concretizzata nel rivificare il fantasma di una soubrette, certamente celebre a suo tempo, ma purtroppo, oggi, ormai superata e quindi inattuale (sic transit gloria mundi). 

Regista che si ostina a voler far passare una showgirl gentile e al tempo stesso trasgressiva (tanto cara alla comunità LGBT ), come icona rivoluzionaria e simbolica. Icona, secondo “loro”, regalataci dagli dei del Pianeta Arkadia, bontà loro, destinata a spettinare un mondo troglodita, bigotto e ingenuo. Un mondo tabula rasa (sempre secondo il melos andato in scena venerdì sera al teatro Donizetti), per nulla toccato da avvenimenti accaduti prima delle arcane decisioni del Pianeta Arkadia: evoluzione industriale, economica, civile, sessuale, femminile, dei diritti civili.

Che tale sarebbe rimasto se un destino meno cinico e baro del previsto non avesse estratto dal suo cilindro magico una diva, che dico diva, una dea che avrebbe aperto magnifiche e progressive sorti. Un mondo con un’unica guida e faro: la TV. Con lo scopo di mettere in vetrina (sfruttandola abilmente) una sola star: Raffaella Carrà uscita dai lombi mitologici nientemeno che (udite, udite ennesima corbelleria) di Raffaello e Carlo  Carrà (libretto docet). In barba a tutte le altre primedonne (per restare in ambito femminile), soubrette, cantanti, attrici, conduttrici, presentatrici spesso pari grado, se non superiori alla stessa Raffa. Con l’unico torto di non essere ancora morte.

Se si fosse sfruttata l’intelligenza artificiale, probabilmente, il prodotto sarebbe stato più coerente e accettabile. Ecco perché parliamo di spettacolo schizofrenico. Il cui ideatore ha contagiato senza colpo ferire, compositore e librettista. Oltre, in primis, i responsabili del Teatro e della Città Capitale.

La musica, infatti, a parte le citazioni dei successi canori di Raffaella Carrà, è risultata un patchwork di stili furbescamente sfruttati (da Donizetti ai Beatles, da Monteverdi a Wagner) senza capo né coda. Il libretto a quattro mani: un testo con piedi d’argilla, fiorito di ameni luoghi comuni, rime baciate della peggior invenzione, scolastiche esercitazioni talvolta a cavallo tra volgarità spicciola e barzelletta da quattro soldi. Spesso assai contigua al ridicolo. Mai, nella composizione musicale come nel libretto, si avverte un colpo d’ala, una intelligente ironia. La regia, avendo imposto motu proprio la visione complessiva, ha seguito questi stessi binari. Con grande sfarzo, grazie tanti, ai tantissimi euro messi sul piatto, di scene e costumi: abile e fantasmagorico fumo negli occhi per nascondere il poco arrosto.

Onore al merito per tutti gli artisti coinvolti nell’esecuzione e nell’interprertazione. 

Il teatro Donizetti, la Fondazione Donizetti, l’Amministrazione Comunale, la regia sono riusciti in un colpo solo a sminuire (per usare un eufemismo) non solo Donizetti, ma persino la stessa ignara Raffaella Carrà e poi la Callas (tirata in ballo pure lei, all’ultimo momento come pari grado della Raffa), la città capitale della cultura e tutti noi. Inconsapevoli cittadini che contribuiamo di tasca nostra a mantenere alta la bellezza e la cultura di Bergamo che altri continuano a mantenere nei limiti di un reiterato e sottomesso provincialismo.

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