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Certo, il rinnovato e restaurato teatro Donizetti è un fiore all’occhiello per la città di Bergamo. Tempio della cultura, tempio dell’arte. Ma quale cultura? Quale arte? Cercheremo di rispondere. E anche tempio delle vanità. O fiera delle vanità. Soprattutto per certi politici che se ne fanno vanto per meriti tutt’altro che personali, bensì collettivi. Così come per certi direttori artistici, e loro entourage, che ne approfittano per benemerenze di carriera e di curricula. L’elenco è lungo. Il restauro del Teatro Donizetti di Bergamo è avvenuto perché oramai era diventato indispensabile intervenire non essendo più dilazionabile per motivi di sicurezza, in primis, e di decadenza, nel senso letterale.

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Ricordiamo che nemmeno un incendio interno innescato a livello della prima fila di sinistra dei palchi a fine anni Novanta, riuscì a mobilitare la forza (politica) necessaria per intervenire in maniera radicale. Qualche anno dopo ricordiamo anche un’intervista del neo assessore alla cultura Valerio Marabini esprimere l’imminente inizio dei lavori. Però ci son voluti quasi tre decenni ancora prima che i “sogni” si realizzasero. Il “rinnovamento” del teatro dedicato a Gaetano Donizetti era diventato ineludibile. Merito dell’attuale Aministrazione Gori – Ghisalberti? Si, in qualità di esecutori, diciamo così, testamentari. Infatti il loro concetto di arte e di cultura, esplicitato per l’ennesima volta anche nella cerimonia di inaugurazione di venerdì 28 maggio, è ed è stato guidato dalla stella polare della mediatica visibilità formale, dell’esclusività radical chic, da aristocrazia elitaria e salottiera, con qualche briciola per il popolo delle notti estive o degli spettacoli di strada, o dei visitatori debitamente guidati.

Tutto il resto (di soldi soprattutto e di scelte artistiche) in favore di spettacoli e titoli (pochi peraltro) per addetti ai lavori, di dispersive quanto fantomatiche rivoluzioni (alias “Donizetti revolution“) a beneficio dei soliti “amici” artisti, e con pochi spiccioli (a volte nemmen quelli) per qualche studente di conservatorio impiegato come (volontario) tappabuchi agli angoli delle strade. Con la pretesa cinica ancorché furbesca, di attestarsi il merito di oceaniche partecipazioni (40/50 mila stando alle loro dichiarazioni) di pubblico e di popolo, scambiando una normale passeggiata serale con un gelato o col proprio partner che riempie tutte le città dopo la calura diurna, per adesione alla revolution. Il tutto sotto l’abile ancorché interessata in quanto lautamente remunerata regia del D. A. Francesco Micheli, attento anche alla personale autocelebrazione col concorso di amici artisti ossequienti e sodali televisioni non solo locali.

Una revolution interna quanto esterna al teatro dell’ignaro Gaetano (tirato a destra e a manca e adattato come si vuole, come insegna il celebre proverbio sulla “pelle delle palle” e che tutto fu, meno che rivoluzionario in musica) che in questi anni di gestione del mirabile duo brembano Ghisalberti – Micheli con la partecipazione del solista Gori ha succhiato milioni su milioni di sussidi pubblici e risorse comunali. Sotto l’egida, bontà loro, della cultura. Anzi, sempre bontà loro, della grande cultura. Ora, basterebbe una piccola riflessione su cosa sia cultura. E su cosa sia spettacolo. E dunque un’altra piccola riflessione sulla differenza tra cultura e spettacolo. Che siano necessari entrambi non v’e alcun dubbio. Altrettanto evidente che l’una implica l’altro e viceversa. Sta di fatto che la loro politica culturale appare fortemente sbilanciata verso la pura spettacolarità. Di stampo televisivo per capirci. E sta di fatto che le risorse per realizzarla non lasciano spazio ad altre progettualità e, diciamolo, anche per culture (e spettacolarità) alternative. 

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La cultura in senso pieno e formativo implica una progettualità lontana dall’effimero e quindi anche dall’evento mediatico garantito, non sempre, dai brand altisonanti. Cultura va di pari passo con formazione, educazione continuativa e trasversale, multidisciplinare. Un esempio concreto: un vero assessorato alla cultura, una vera fondazione lirica, una vera amministrazione (civica e civile) dovrebbero fare sistema e interagire sul territorio con tutti gli enti e istituti culturali interessati onde coinvolgerli in una progettualità complementare e interdipendente, finalizzata a realizzazioni di corto, medio e lungo termine in grado di esprimere i valori ludici, spettacolari, artistici, creativi di tutta la città. Nella fattispecie (per limitarci al contesto musicale): il conservatorio, l’università, l’accademia d’arte, i licei e le varie associazioni musicali. Tutti orientati alla programmazione culturale della città e del suo Teatro fornendo in prima persona capitale umano, progetti scenografici-costumi, idee-eventi. 

Il conservatorio dovrebbe diventare il serbatoio naturale dei professori d’orchestra per la stagione lirica (striminzita perché ridotta a poche serate per tutto l’anno! ) e per la stagione sinfonica (ora inesistente, ma fondamentale per una crescita evolutiva della musica ma anche della cultura, per le implicazioni multidisciplinari che la storia della musica ha con tutte le altre “materie”). Ne consegue la necessità per non dire l’obbligo della costituzione il più presto possibile di un’orchestra cittadina “stabile” come ogni città veramente europea. Questo anche e soprattutto per fornire una prospettiva credibile a tutti gli studenti di strumenti e di canto bergamaschi, che da quando esiste il conservatorio sono costretti, nella migliore delle ipotesi, a migrare o “arrangiarsi” autarchicamentre, nella peggiore a rimanere illustri disoccupati.

Dal canto loro università, licei, accademie interverebbero a livello interdisciplinare e multimediale nella costruzione dei vari eventi lirici e spettacoli musicali, ognuno con la propria specifica competenza. Questo sarebbe un sistema virtuoso, evolutivo e formativo di educazione e cultura: artistica, musicale e non solo. Che non si fermerebbe ovviamente alla contingenza dello spettacolo e all’evento effimero ancorché altisonante (quando capita). Certo, bisognerebbe trovare le risorse. Ma ci sono, in gran parte. Per esempio i 3 milioni annui che vanno al rivoluzionario opera festival do, potrebbero felicemente trovare questa nuova strada. Questa sì, potrebbe definirsi stagione culturale, musicale, donizettiana (senza rivoluzioni pirotecniche e sciarpe colorate). Questo sì renderebbe il Teatro Donizetti di Bergamo grande e alto contenitore di manifestazioni musicali alla portata e crescita di tutti.

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Un Teatro prestigioso, nobile ma anche trasparente nel quale entrare come in un locale familiare e “conosciuto” perché al termine (per quanto riguarda il pubblico di ogni ceto e livello) di un percorso di crescita educativa e formativa costante nel tempo. Insomma una tradizione musicale che si costruisce man mano con gli eventi, con le stagioni musicali anno dopo anno, intrecciata alle varie realtà scolastiche, artistiche, culturali, musicali di cui sopra. Un teatro in cui elaborare non solo a parole, come ha detto l’altra sera il sindaco Gori dal palcoscenico tirato a lucido, il dolore causato dalla pandemia.  Dunque, riapre il Teatro Donizetti, sebbene con un’inaugurazione declinata dalla “formalità divisiva” delle autorità lustrate a festa, con spettacolarità calate dall’alto (anche letteralmente), con i lustrini d’ordinanza, le parole incensatorie e autocelebrative. Un nuovo bel teatro restaurato, scrigno dorato delle loro ambizioni, delle loro celebrità, dell’alta società sempre pronta alle lodi (mai disinteressate). La fiera effimera delle vanità pseudonascoste. E lor signori continuamente intenti a suonarsela e a cantarsela fra di loro, cospargendosi di meriti e di numeri strabilianti (tanto nessuno verifica, men che meno controlla). 

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