La bütìga e l’ostaréa luoghi di incontro e di servizio
“Compra in valle, la montagna vivrà”. E’ lo slogan diffuso alcuni mesi or sono dall’Uncem per sostenere le condizioni di vita e i consumi della montagna, nel tentativo di porre un freno al dilagare del fenomeno dei piccoli negozi di vicinato costretti ad abbassare le saracinesche, veri e propri presidi umani a rischio di scomparsa. Il negoziante, quassù, non è mai stato solo un anonimo addetto al commercio, quanto invece un consulente negli acquisti, al quale la massaia confidava persino i problemi nella gestione del bilancio familiare, affidava ol sò lebrèt de la spésa, chiedeva e otteneva dilazioni nei pagamenti durante i periodi di crisi. Una persona disposta a svolgere innumerevoli servizi per le comunità nelle contrade, disponibile a soddisfare le esigenze sollevate dai consumatori locali. La bütìga e l’ostaréa hanno rappresentato luoghi di incontro e di servizio, non solo spazi per attività commerciali. Questo è stato, sino a poco tempo fa, ol Balèta, il principale esercizio pubblico di osteria, trattoria e bottega della famiglia Salvi che, nell’ultimo secolo, ha gestito gli acquisti degli abitanti dimoranti nell’Alto Comune di San Simù. Ol Batistì de Balète, ad esempio, faceva anche il mulattiere e il campanaro e trasferiva qua e là, assieme a sacchi di farine varie, anche le ultime notizie e le comunicazioni utili agli abitanti delle varie contrade. Tutto era partito dall’antico spaccio di sale e tabacchi de Cà de Màrche, in posizione topografica bene esposta a mezzogiorno e privilegiata per la sua prossimità alla chiesa parrocchiale, dove i Balète vendevano anche carte e marche da bollo, bulì per la pòsta.
Ol lebrèt de la spésa
Nella bütìga dol Balèta, però, si poteva trovare di tutto. Bastava avere un po’ di pazienza e attendere che l’ordinazione fatta alla premurosa Lisa trovasse soddisfazione. L’anziana donna, mai sposatasi e dedita al suo negozio, scendeva regolarmente in città per procurare i beni richiesti. Ottima “direttrice d’azienda”, diremmo al giorno d’oggi. Molto precisa nel tirare le somme dei contri, ma altrettanto disponibile a concedere alcune regalie ai suoi clienti (un pezzo di stoffa, un paio di scarpe,…), soprattutto a quelle donne che non mancavano di liquidare appena possibile il debito accumulato söl lebrèt de la spésa. Ricordo, come se fosse oggi, la domanda rituale che la mamma le rivolgeva, quando, rincasato il papà dalla Svizzera, la ‘ndàa dó a pagà ol lebrèt de la spésa dol Balèta: “Cosè me dìf sössùra?”. La regalia era commisurata al valore della spesa sostenuta. Le famiglie erano numerose, i soldi scarseggiavano e le donne aspettavano che i loro uomini facessero ritorno a casa, a la fì de la stagiù, co la campàgna en gaiòfa, per onorare i debiti accumulati da marzo a novembre. Su quel libretto venivano registrati anche i pochi prodotti agricoli che la famiglia consegnava quasi settimanalmente alla Lisa. Alla fine della stagione, però, la colonna sotto la voce “dare” superava di gran lunga quella dell’avere, poiché pà de butìr e dondéne de öf servivano a detrarre solo una minima parte delle spese. La nonna Elvira raccontava che, a volte, e öf e s’laghàa stà ‘nféna de dàgoi ai tosài, per portàgoi fò a la Lisa; quando, poi, a dicembre, il nonno rimpatriava dalla Svizzera, talvolta si vergognava persino di esibirgli quel libretto, consapevole e responsabile della condizione di sacrifici cui era coinvolta tutta la famiglia. Ol lebrèt de la spésa veniva comunque azzerato e… tutto ricominciava, con la speranza di una nuova annata migliore della precedente, confidando soprattutto nelle forze dei figli in età da lavoro. Oggi i tempi sono decisamente cambiati. Alle mani premurose e sempre pronte della Lisa, la quale, conoscendo bene i suoi clienti, rovistava tra le vecchie scaffalature di legno massiccio, in cerca del prodotto idoneo, che avrebbe poi deposto orgogliosa sul banco, si sono sostituiti i moderni carrelli che accompagnano i clienti ai prodotti esposti, già pubblicizzati da giornali e televisore. È il modello del “fai da te”.
Il primo televisore dol Balèta
Accanto all’antica bütìga, trasformata poi in un minimarket, anche quella primitiva attività di mescita del calice di vino o del bicìr de gràpa, che bagnava il palato soprattutto agli uomini dopo la messa nella parrocchiale, o dei giovani che si radunavano le sere d’inverno, si è gradualmente ampliata, diventando dapprima un’osteria con trattoria, infine un ristorante con pizzeria. Qui le famiglie, già dagli anni Sessanta, si recavano per il pranzo che accompagnava gli eventi più solenni, come il matrimonio. Bütìga e osteréa, dunque, hanno rappresentato luoghi aggreganti, dove convergevano, per diversi motivi, le persone dalle contrade. Anche per noi ragazzi il catechismo e la dottrina domenicale diventarono “diversamente” importanti, quando ol Balèta acquistò il primo televisore. Al solo pensiero delle emozioni che ci attendevano nel negozio, aumentava la nostra irrequietezza e quei banchi della chiesa durante i Vespri ci parevano sempre più stretti e silenziosi. Certo, non potevamo prevedere l’evoluzione del nostro domani, sostanzialmente diverso dai racconti di vita del nonno e riguardanti solitari carbonai, forti boscaioli ed eroici combattenti! Ce ne stavamo, dunque, in attesa della conclusione della cerimonia religiosa e, dopo la benedizione eucaristica… vià, de córsa, dal Balèta! Si gareggiava per i primi posti nella salettina, oltre la bütìga, dove, tra scatole di calzature e capi di biancheria ammassati, c’era un piccolo televisore. La curiosità di vedere sullo schermo muoversi tante persone e vivere così intensi racconti era enorme. Sempre troppo presto, però, arrivavano a prelevarmi la mamma, oppure una delle numerose zie, che faticavano non poco per staccarmi da quel posto magico. Talmente attraente era diventata la televisiù dol Balèta che il nonno, per soddisfare, con le mie esigenze, anche quelle, meno manifeste, degli altri componenti della sua grande famiglia, verso la fine degli anni Sessanta, autorizzò l’acquisto in casa di un televisore. Se non erro l’aveva pagato ol Róso, lo zio generoso e forte, che aveva saputo trasportare sulla montagna, da solo, grazie alle sue possenti spalle, ü rödèl de fil da utilizzare per il palorcio. La dottrina pomeridiana diventò allora meno importante, cessando di costituire il pretesto per raggiungere il centro del paese, insieme ai compagni di avventura, dove c’era quel piccolo schermo animato. Così pure, la sira, e stòrie de la televisiù ìa piö bèle de chèle dol nóno e gli avvenimenti nazionali, proposti dal Telegiornàl, oppure l’ultima puntata della “Freccia nera”, occupavano i ritagli di tempo anche delle zie, prima riservati alla conversazione serale. Dòpo gh’ìa dóma de fà sö i scale per ‘ndà a lòs.
Si mormora che stia per chiudere anche il negozio
Da un anno l’ostaréa dol Balèta ha la saracinesca abbassata e, nella bütìga sottostante, da alcune settimane sono spariti i giornali, mentre le merci sugli scaffali non sono più così assortite come prima. Si mormora che stia per chiudere anche il negozio. Non ci voglio credere. Non diamo adito ai pettegolezzi. Anzi ci auguriamo che possa riaprire presto anche l’ostaréa. Dispiace un po’ a tutti. È un pezzo della storia del paese che se ne va. Vengono improvvisamente a mancare i luoghi della nostra infanzia, alcuni riferimenti essenziali della vita della comunità. Come è possibile che questo succeda nell’indifferenza della comunità e della politica? Vedere quelle saracinesche abbassate, soprattutto la domenica, fa male. Giro lo sguardo e proseguo. Viviamo le contraddizioni del nostro tempo: rincorriamo i supermercati e poi ci lamentiamo se i negozietti di paese chiudono. Ostaréa e bütìga erano un tutt’uno e la gestione familiare dei Balète consentiva di soddisfare un’ampia gamma di servizi, persino quello dell’autonoleggio: ciascuno aveva i suoi compiti – Lisa, Giölia, Batistì, e poi Antonio e Cìlia – chi alla bottega, chi all’osteria, chi ai servizi esterni. Così è sempre funzionato e dal Balèta si poteva trovare di tutto e in qualsiasi momento. Ve la ricordate quell’antica bottega, a fianco dell’osteria? Una sorta di emporio, con tante cose ammassate in piccoli spazi, disposte sulle scaffalature di legno scuro alle pareti, e il grosso bancone con la bilancia, che serviva per pesare di tutto, dal sachetì de pà a scartusì de zöcher, dietro il quale stava la Lisa, dal fisico esile ma alta di statura – sembrava ancora più slanciata, vestita con l’immancabile abito nero e lungo – e sempre in movimento. Un negozio storico, dotato di una propria particolare atmosfera, con un ampio assortimento, dove si poteva trovare ciò che mancava per l’alimentazione, la cucina, la casa, l’abbigliamento. Scherzando con un amico, anni fa gli avevo detto che, se alla Lisa gli avessimo ordinato un’automobile, ella avrebbe fatto tutto il possibile per procurarcela. Noi bambini sapevamo che l’estate sarebbero arrivati i gelati: ol Balèta avrebbe annunciato l’atteso evento esponendo all’esterno dell’osteria una bacheca di latta colorata, sulla quale veniva indicato l’assortimento. Di solito si optava per il ghiacciolo, che costava meno, perché non sempre ci potevamo permettere il mottarello. Nella bottega, invece, la Lisa teneva in bella mostra sul bancone un grosso recipiente di vetro contenente caramelle e mèrde de gat. Era sempre lei, la Lisa, in accordo con la mamma, a consigliarci il gusto migliore,… ma sempre in economia. È stato così per molti anni, durante la nostra infanzia e giovinezza, mentre gli anziani, soprattutto i pomeriggi d’estate, popolavano la terrazza esterna per la partita a scùa o a briscola. Le sere invernali, invece, … quàci pögn de la mura ià ciapàt sö chi tàoi! Attualmente anche la grande terrazza esterna, coi gradini che danno sulla strada, dove si sono seduti generazioni di bambini e ragazzi, è vuota e trasmette malinconia.
La fatica di mantenere vivo un servizio
Il Balèta pare abbia perso la vitalità di un tempo e questo è indice dei forti cambiamenti in corso. La causa non è solo lo spopolamento della montagna o la diffusione dei grossi centri commerciali. Sono i modelli culturali a trasformarsi in continuazione. Da un lato molti di noi usano l’automobile privata ogni giorno per recarsi al lavoro e spesso la spesa la fanno nel capoluogo, oppure presso i supermercati che si trovano sul tragitto verso casa. Dall’altro, anche le ultime generazioni di commercianti scelgono strade diverse e, attratti da altre logiche, faticano a mantenere vivo un servizio, dedicandoci del tempo e magari rimettendoci anche del denaro. Le grandi famiglie estese di un tempo, all’interno delle quali ci si aiutava e sostituiva a vicenda in modo corresponsabile, sono venute meno e, con esse, anche la dimensione collettiva dell’esistenza e della vita quotidiana. Oggi ciascuno è portato a pensare prevalentemente a sé stesso. Il richiamo al posto fisso, il modello dell’orario di lavoro predeterminato e acquisito dall’industria, la stretta quantificazione del lavoro rispetto al compenso e al denaro… hanno condizionato programmi e impegni individuali. Dimenticando che, soprattutto in montagna, non tutto il tempo è denaro. Per la Lisa, la sua bütìga era soprattutto un servizio, una passione, e sapeva accontentarsi: era stata educata e mèt vià ü tantì a la ölta, perché ol tant e l’vì dal póch, formata a valorizzare e a risparmiare le piccole economie. La bütìga e il lavoro erano la sua vita. In modo totalizzante. Le attuali generazioni di negozianti e di clienti sono diverse, soprattutto distanti dai modelli di vita e dei consumi preesistenti. Probabilmente, se non si costruiscono nuove forme di economia, diverse da quelle della grande distribuzione, sarà difficile sostenere la sfida dell’abitare sulle quote medio-alte. Assistiamo, impotenti, all’agonia lenta e dolorosa di presenze che sono sempre state un punto di riferimento. I nostri vecchi non avrebbero mai pensato che ciò sarebbe potuto accadere. Ma proprio quegli anziani, in primis la Lisa e ol Batistì, anche di fronte alla scarsa resa, chissà se avrebbero mai avuto il coraggio di chiudere un’attività che contribuisce a tenere vivo un paese. Forse è questa consapevolezza – come un forte senso di corresponsabilità sociale – che oggi ci manca.