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Recentemente è stato pubblicato un libro “Il rogo della repubblica” scritto da Andrea Molesini, edito da Sellerio. La vicenda ricostruita nel testo, con spunti originali e inediti, avvenne a Venezia nel 1480. Come ben si sa in quel periodo la terra di Bergamo, seppur da poco, faceva parte della Repubblica di Venezia. Ma erano tempi difficili di profonda crisi sociale, politica, economica, sanitaria: guerre, pestilenze, carestie imperversavano.

Un ulteriore elemento caratterizzante di quel contesto era costituito dal fatto che alcune comunità ebraiche si erano trasferite a Venezia e in alcune località del Veneto fuggendo da diverse zone dell’Europa centrale dove le persecuzioni e i pogrom antiebraici stavano rendendo impossibile la loro vita. La capitale lagunare accoglieva questi gruppi perché con i loro banchi dei pegni, con le loro professionalità in alcuni settori della vita sociale potevano offrire risorse preziose per la quotidianità di tanti cittadini, anche quelli meno fortunati.

Ma ciò non sempre era ben visto dalla cittadinanza: alcune radicate convinzioni, critiche nei confronti di queste persone, si stavano diffondendo, soprattutto, in alcuni centri minori. A dire il vero non solo in Italia, ma in diverse città europee proliferavano questi infondati timori. Nel libro  si citano Norwich, Blois, Monaco, Magonza, Berna, Lincoln, Cracovia, Regensburg; persino Fedor Dostoevkij, nel suo capolavoro, I fratelli Karamazov, riprende questi pregiudizi. In particolare, si credeva a pratiche rituali celebrate in occasione della Pasqua ebraica con ricorso a un crudele rito sacrificale.

Nella nostra penisola l’evento forse più conosciuto fu relativo ad un ragazzo di nome Simonino che a Trento nel 1475 misteriosamente scomparve. Successivamente, della sua morte venero accusati e condannati gli ebrei della città ritenendo che fosse stato sacrificato con il rito che fu poi denominato con l’espressione Pasque di sangue.  Ovviamente seppur prive di fondamento, come poi ben si potrà constatare, queste convinzioni determinavano un clima di profonda diffidenza. I governati della Repubblica di San Marco conoscevano bene queste idee, alimentante, in certi casi da alcune figure di fanatici contrari ad ipotesi di tolleranza religiosa e aveva dato precise diposizioni per contrastare tali fenomeni. Però, se in città il rispetto di queste regole era ben attuato in quanto il governo della città era fortemente interessato alla salvaguardia della vita degli ebrei per favorirne la presenza, nelle località periferiche il controllo non era così efficace. In alcuni momenti, infatti, gli accadimenti sfuggivano di mano ai responsabili veneziani. Il caso di Trento fu molto indicativo di questa complessa e contraddittoria situazione. Si pensi, ad esempio, che il culto di San Simonino era profondamente sentito in diverse parti della regioni dello Stato di Terra Ferma. Anche a Bergamo si conosceva questa devozione: ad Albino, nella chiesa di San Bartolomeo un intero ciclo di affreschi raccontava il presunto martirio di questo infante. Il suo culto, seppur subito sconfessato a Venezia, venne abolito solo dopo il Concilio Vaticano II.

In questa cornice si inserisce una vicenda che coinvolse il nostro concittadino Sebastiano Novello. La storia, vera o presunta che sia, è molto semplice: un ragazzo di circa sette/otto anni partì da Seriate, intorno al 1480, avviandosi sulla strada che portava alla capitale di allora.

Passò da Palazzolo, Brescia, Verona, Vicenza arrivando a Treviso. Era in condizioni misere: ” … lacero, sporco, il corpo gracile, affamato, e aveva piccole mani un poco tramati“. Viveva di carità mendicando quotidianamente un pasto per sfamarsi. In questa città avvenne il misfatto: molti cittadini incontrarono questo sventurato che, però, a un certo punto non fu più visto. Di questa improvvisa scomparsa furono accusati alcuni Ebrei della vicina località di Portobuffolè. Secondo la testimonianza di alcune persone, infatti, il ragazzetto era stato avvicinato da questi Giudei e, con semplici stratagemmi e la promessa di un lauto pranzo, venne rapito per sacrificarlo nel rito della Pasqua ebraica ormai imminente.

I sospettati furono subito scoperti e imprigionati e, sotto tortura, confessarono. Il consiglio civico di Portobuffolè li condannò e li inviò a Venezia per il processo definitivo. Il libro di Molesini, racconta soprattutto queste fasi: il trasferimento in città dei condannati, i dialoghi fra il protagonista e gli accusati. Nonostante le evidenti contraddizioni e falsità anche le magistrature cittadine, per un cinico senso della real politik ma, in particolare, per non contraddire i capi e la cittadinanza tutta o quasi di Portobuffolè condannò al rogo quelli che furono ritenuti responsabili del rito sacrificale. Non possiamo a questo punto, non consigliare ai lettori interessati all’argomento la ripresa completa del libro che sapientemente incolla le tessere del complesso mosaico toccando tutti gli aspetti della vicenda: da quelli economici, a quelli sociali, a quelli culturali nonché a quelli religiosi. Inoltre il testo disegna tantissimi personaggi: uomini, donne, religiosi, avvocati, giudici che rendono vivissima e accattivante la sequenza del racconto magistralmente sviluppato.

Tornando, però, al nostro concittadino nel libro viene indicato il suo nome: Sebastiano Novello; nome vero o inventato? Per l’autore certamente inventato. Non così per gli abitanti del centro trevigiano: Sebastiano Novello fu considerato un beato martirizzato dagli ebrei. Venne anche pubblicato un racconto in versi conservato presso l’Archivio parrocchiale che aggiunge particolari alla storia; per esempio, si viene a conoscere il nome del suo papà: Pietro. Anche Sebastiano Novello ebbe un suo culto; ancora nel settecento l’abate G. B. Angelini nella sua nota pubblicazione “Per darti notizie dal paese ne ricordava ancora il martirio. Probabilmente la venerazione a questo nostro concittadino era limitato solo ad alcuni ambienti religiosi; scomparve nei decenni successivi. Interessante aggiungere che ho trovato informazioni su tale vicende in due siti che confermano e aggiungono altre informazioni. In uno (conoscerevenezia.it)si afferma che il poemetto di cui si è fatto cenno fu opera di Girolamo Sommariva e che uno studioso Domenico Malipiero raccontò queste vicende nell’opera “Annali veneti“. Il tutto, però, non fa venire meno i dubbi e le incertezze prima espresse soprattutto circa l’effettiva storicità riguardante Sebastiano Novello. Si può anche rintracciare un secondo sito (tau.ac.il)  che ricostruisce i fatti con riferimenti bibliografici tratti anche da testi dei secoli XV e  XVIII.

Qualche anno fa, fece scalpore il libro “Pasque di sangue” scritto da Ariel Toaff, importante medievista israeliano, in cui si ipotizzava che poteva esserci qualcosa di vero nelle accuse di omicidio rituale. Suscitò così aspre polemiche per cui venne presentata una seconda edizione dove precisava meglio quanto prima espresso. Indubbiamente, costituisce una ricerca documentatissima con una bibliografia eccezionale che ricostruisce, anche dall’interno, il complesso, contradditorio mondo ideologico culturale degli ebrei ashkenaziti italiani. Anche in questo testo viene ricordata la vicenda di Sebastiano Novello da Seriate, La vera conclusione definitiva, su tutto quanto qui raccontato si ebbe, però, quando la Chiesa di Trento ospitò una mostra dal titolo oltremodo significativo L’invenzione del colpevole. Il caso di Simonino da Trento dalla propaganda alla storia.

Di questa vicenda, tra verità e finzione, non si possono non evidenziare alcuni aspetti di lunga durata. In tempi difficili e di miseria anche i nostri avi, giovani e no, maschi e femmine, cercavano un ambiente dove trovare occasioni per dare concretezza alle loro speranze per un mondo meno misero di quello che erano costretti a vivere. In quei tempi la città che ,con la sua vitalità, con i suoi traffici, i suoi commerci, le sue attività  attirava era Venezia. E a Seriate, sulla via che portava alla capitale, tutto poteva sembrare un po’ più semplice. In questo contesto, la condizione dei bambini era ancora più drammatica: malattie, scarsa alimentazione, abbandoni, violenze non erano situazioni eccezionali ma, purtroppo, diventavano, spesso, una tragica quotidianità. “A Treviso – scrive l’autore del testo presentato – non mancano bambini a cui la sorte ha perso i genitori”; la città diventava “una selva di caccia“.

Infine, le condizioni degli ebrei erano come sospese tra atteggiamenti di tolleranza da una parte e dall’altra di segregazione attraverso rigide regolamentazioni. Il loro essere diversi per cultura, lingua, religione ma anche per le loro competenze in vari settori, in quello finanziario in particolare,  faceva scattare sentimenti di diffidenza, di disprezzo, di gelosie, di invidia. di timori, di paure che, a volte, sfociavano nello scontro fisico più violento, segno di un clima dove prevaleva una contrapposizione alimentata, spesso, da radicati reciproci pregiudizi. Potremmo concludere erano – sono – storie ordinarie delle migrazioni. Ma, fianco di fenomeni di crudeltà di fanatismo anche religioso oltre che politico, culturale, economico, c’era  – c’è – chi non si dimenticava – ieri come oggi – la comune umanità.

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Mario Fiorendi

Studioso di storia locale in particolare del movimento cattolico bergamasco tra fino 800 e inizio 900. Tra le sue pubblicazioni: - "Vincenzo Bombardieri. Una storia civile"; "100 anni fa. Una storia ancora viva. Lo sciopero di Ranica"; un contributo al volume "Alle radici del movimento sociale cattolico a bergamasco".

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