Per favore, non chiamatelo Cre. Ormai parola proibita in Diocesi. Subentrano altre terminologie, avanguardie lessicali, circonlocuzioni creative per dire quello che non si può dire e non si può fare. Perché diciamolo chiaramente: il Cre quello vero, fatto di sfide sotto il sole, di gavettoni, di gite in montagna e tuffi in piscina, di spettacoli teatrali, di balli e cacce al tesoro… quest’anno , patrocinato dal virus, non sarà possibile.
E tanti parroci non ci stanno a trasformare quattro settimane di socialità organizzata in “un lager” pieno di costrizioni, vincoli, attenzioni e timori che qualcosa sfugga al controllo di quanto imposto dalle normative anti-Covid. “No, così non è un Cre – precisa don Pierangelo Redondi, parroco di Sedrina -. Perde di senso, non è il nostro Cre. C’è in gioco troppa responsabilità per i miei parrocchiani adulti attorno a questioni di sicurezza. Così si è deciso di non fare nulla”. Tanti parroci seguiranno il suo esempio. Al di là delle rigide regole di un’estate a gruppetti di una decina di persone al massimo, distanziate, non comunicanti, preferibilmente in spazi aperti, con ingressi e uscite da pronto soccorso, i parroci non ne vogliono sapere di trasformare un’opportunità educativa che in Bergamasca ha fatto scuola in un servizio di babysitteraggio. “Per queste cose – continua don Redondi – ci sono i Comuni. Loro fanno presto. Chiamano la cooperativa e risolvono”.
I problemi da affrontare non sono pochi e le norme non sono di facile interpretazione. Le parrocchie che tradizionalmente organizzavano il Cre nelle quattro settimane di luglio sono ancora in fase decisionale, in bilico tra un “sì, lo facciamo” e un “no, restiamo chiusi”. Il punto più dolente è il volontariato di maggiorenni che deve assistere i minori. Una parrocchia, per esempio, con 160 ragazzi al Cre (120 bambini e 40 preadolescenti) dovrebbe disporre almeno di una ventina di animatori adulti ai quali affidare i gruppetti di ragazzi. Non tutte le parrocchie possono vantare una rete di collaboratori così ampia – a gratis – che possa garantire una presenza ininterrotta per un mese consecutivo dove il dovere di una attenta supervisione è un macigno non alleggerito da nessuna prospettiva di svago. Un conto è badare a dieci ragazzi mentre si sta a mollo in piscina o si segue una mulattiera verso un pic-nic vetta; un altro è stare tutto il giorno in uno spazio autonomo e ristretto a inventarsi come spendere il tempo. Poi c’è la questione della igienizzazione.
Le regole dicono che è necessario pulire i bagni ogniqualvolta un bambino fa pipì. “Significa – ammette un prete di montagna – avere, come durante la naia, un piantone che spazzola il cesso ad ogni utilizzo. E poi la sanificazione degli ambienti e del materiale. Il primo aspetto potrebbe essere risolto da un gruppo di mamme volenterose che passa di fino gli ambienti dell’oratorio. Ma se faccio una attività con i pennarelli, quei pennarelli vanno poi sanificati. Dunque, il primo problema è la gran mole di volontariato che occorre recuperare che si declina in un impegno economico (non alla portata di tutte le parrocchie) se si vogliono condurre le attività bene, seriamente e rispettando le leggi”.
E per le unità pastorali di montagna dove il Cre è concentrato nella comunità maggiore occorre pensare al trasporto dei ragazzi delle comunità minori (andata e ritorno). Se negli anni scorsi un pulmino da nove posti garantiva effettivamente nove posti, adesso (per la regola del distanziamento) le corse raddoppiano e con esse le spese. Un comune denominatore emerge per i parroci: “Se si fa il Cre, l’utenza che potremo accogliere sarà meno di un terzo di quella ordinaria. La maggior parte dei ragazzi, purtroppo, dovrà trovare altre soluzioni”.