La specie umana ha bisogno di un piano B. Se trattiamo troppo male il pianeta Terra, abbiamo la necessità di un’alternativa. Dobbiamo diventare capaci di andare «là fuori».
Solo che, ehm, quando un essere umano va nel cosmo oltre l’atmosfera terrestre corre rischi seri per la salute. Lo abbiamo già scritto qui su SocialBg (per esempio al link: https://www.socialbg.it/quei-turisti-dello-spazio-che-diventano-anemici/). L’organismo subisce dei cambiamenti immediati, perdendo una parte del sangue oltre a una parte delle ossa e dei muscoli. Poi cambia anche il cervello, nella parte bianca dove i neuroni costruiscono le loro reti cognitive.
Lo sanno da decenni i medici che hanno curato le ormai centinaia di astronauti (se statunitensi ed europei occidentali) e cosmonauti (se sovietici ed europei dell’est) e taikonauti (se cinesi e giapponesi) che sono stati «là fuori». Sono circa 60 anni che gli esseri umani hanno cominciato a volare nello spazio.
Quasi tutti coloro che ci sono andati hanno trascorso pochi giorni nel cosmo, alcuni hanno superato le settimane e i mesi, in una missione sola o sommando periodi diversi. Poi al ritorno hanno avuto problemi di salute, senza differenza se fossero maschi o femmine.
Lo sanno da decenni anche gli scrittori di fantascienza, perlomeno quelli più informati. Bruce Sterling, per esempio, lo ha scritto nel 2004 sul sito web dell’editore Delos (al link: https://www.fantascienza.com/6791/cyberspazio-esterno).
Riporto il suo resoconto perché è impressionante:
Gli anni del volo spaziale con equipaggio ci hanno portato l’interessante scoperta che la vita in caduta libera è nociva per le persone. Le ossa perdono calcio, circa l’uno per cento ogni due mesi. Perdere calcio è lo stesso fenomeno che nelle persone anziane causa l’osteoporosi, la «gobba della vedova». Rende fragili le ossa. Nessuno sa fino a che punto questa sindrome possa portare gravi conseguenze, perché nessuno fino a oggi è mai stato in orbita più di un anno. Ma dopo un anno la perdita di calcio non sembra voler rallentare. Il cuore si restringe in caduta libera, in coincidenza con una generale perdita di tonicità e di massa dei muscoli. Per questo motivo, dopo alcuni mesi passati in orbita gli astronauti e i cosmonauti si sentono depressi e deboli. E ci sono altre sindromi. La mancanza di gravità causa uno stazionamento del sangue nella testa e nel torace superiore, producendo le facce arrossate a cui siamo abituati nei video provenienti dagli shuttle. A volte il corpo reagisce alla congestione riducendo il volume del sangue. Gli effetti a lungo termine sono poco noti. Quel che si sa è che diminuisce la produzione di globuli rossi nel midollo spinale. I globuli rossi prodotti in caduta libera tendono a interessanti malformazioni.
Se la faccenda è così pericolosa, perché tanti si ostinano ad andarci, là fuori? Non ci sono già abbastanza guerre, abbastanza pandemie, abbastanza disastri ambientali? Per quale motivo si distolgono risorse economiche (a decine di miliardi alla volta – che siano calcolati in euro, dollari, rubli, renminbi, yen, rupie ecc. ecc. ecc.) ai veri problemi di quaggiù per mandare qualcuno lassù e farlo ammalare?
Il motivo è ovvio: il cosmo è il piano B dell’umanità. Bisogna andarci per avere una possibilità di sopravvivenza.
I dinosauri, per dire, un piano B non ce l’avevano. Erano i dominatori delle terre emerse e delle acque superficiali. Poi cadde un sasso cosmico e si estinsero. Una cosa del genere, anche se magari senza sasso cosmico, è successa almeno 5 volte nel corso della storia della vita sul pianeta Terra. Potrebbe succedere una sesta volta in questa temperie di riscaldamento globale. E stavolta riguarderebbe noi.
Potremmo essere capaci, come specie di scienziati e persone di cultura, di sistemare le cose: smettere di inquinare, smettere di ucciderci a vicenda, smettere di devastare l’ambiente alle altre specie viventi con cui condividiamo questo pianeta.
Serve andare nel cosmo. Serve piano B per la specie umana per andare là dove nessuno (pare) è mai arrivato prima. Sempre se riusciamo a imparare come fare.