Dall’8 al 12 marzo scorsi si è svolto a Milano «Tempo di libri», la 2ª edizione di una manifestazione che definisce se stessa «Fiera internazionale dell’editoria». Io ci sono andato il 9 marzo. E ho visto una specie di vuoto siderale. La conferma che in Italia non legge quasi nessuno. Ok, era un venerdì, ero lì in orario serale, in concomitanza alla mia visita c’era l’incontro pubblico con uno scrittore famoso come John Grisham, al quale io non ho assistito… per cui può essere che la maggior parte del pubblico fosse piazzato nei dintorni dell’evento e ciò che ho visto io sia stato un errore rispetto alle intenzioni degli organizzatori. Tuttavia la mia impressione è stata di fallimento. Di fine anticipata di un intero settore industriale. I numeri ufficiali della fiera, pubblicati quotidianamente da la Repubblica (che però era anche tra gli espositori) sono stati trionfali, con continui paragoni alla 1ª edizione della manifestazione milanese tenuta lo scorso anno e con il Salone del libro che si tiene a Torino da decenni. Addirittura un articolo a Tdl lo ha dedicato anche la Gazzetta dello Sport, non propriamente un giornale letterario – ma il nuovo libro di Grisham parla dei prestiti di studio che vengono fatti dalle banche agli studenti universitari statunitensi, anche a quelli che all’università fanno sport più che studiare. Alcuni di quegli studenti avranno successo e potranno ripagare i prestiti; la maggior parte, invece, vivrà normali vite di lavori a basso reddito e debiti per per molti anni.
Intanto però Tdl, per non andare a scontrarsi (troppo) con il Salone torinese che si tiene a maggio, ha anticipato di qualche giorno la collocazione nell’anno. Così è andata a collidere con un altro evento editoriale, Cartoomics, che si fa a Milano da 25 anni. Addirittura Cartoomics si è svolto nella sede della fiera di Rho dove l’anno scorso c’era Tdl, che quest’anno si è spostata nella zona del Portello. Come se i lettori di fumetti non fossero anche lettori di libri, almeno potenzialmente.
Ad aumentare la delusione, però, ci si sono messi gli addetti agli stand, soprattuto degli editori piccoli. Quelli grossi, più che stand, hanno allestito negozi: niente di diverso, anche nell’aspetto, rispetto alle librerie tradizionali, e cioè con le solite pile di best seller messi ben in vista e i soliti angolini nascosti per tutto il resto della produzione libraria (anche della loro, non solo quella degli editori concorrenti).
I piccoli considerano le fiere come i momenti privilegiati per venire in contatto con il pubblico, e le usano con atteggiamento, come dire, assillante. Proposte, presentazioni estemporanee, offerte di cataloghi. Forse non esistono altri modi efficaci per fare quel mestiere, però un atteggiamento simile può andar bene a un lettore debole, od occasionale, che compra un libro all’anno non per leggerlo bensì per fare bella figura regalandolo. Viceversa un lettore forte (che legga più di un libro al mese, secondo le statistiche) sa quello che vuole. Sa quello che gli piace. Se trova un titolo intrigante, domanda lui. Se pensa che un catalogo sia interessante, lo chiede lui. L’insistenza del marketing è quasi paragonabile alle telefonate dei call center. Irritanti.
E al venerdì sera, senza scolaresche vocianti in giro, in un vuoto quasi siderale – i visitatori presenti sono lettori forti, no? Magari per loro sarebbe meglio un atteggiamento diverso. I lettori non sono tutti uguali. Magari è falso che il cliente abbia sempre ragione, d’altra parte un settore industriale che non guarda i propri clienti non va molto lontano. Gli editori, a certe cose, sembrano non pensare.