Torno a Milano, che è un’altra città di ferragosto, partendo dal Castello Sforzesco per una “Mostra di giochi e carte da gioco”, come si usava nel ‘700 quando le famiglie nobili e borghesi occupavano gran parte del tempo in passeggiate e ritrovi. Allargavano le conoscenze, stringevano alleanze, prospettavano matrimoni, tra un ballo e una suonata al pianoforte.
Si espongono giochi dell’Oca, Mercante in fiera, Tarocchi, carte a quiz a scopo istruttivo, simulazioni di battaglie o compravendita, coi dadi o scoperchiando la carta. Ci sono le classiche carte “da scopa”, a portata della gente comune, immancabili nelle osterie, diverse da città a città, da paese a paese, la domenica e nelle feste tra fiaschi di vino e prese di tabacco.
La seconda tappa è all’Arco della Pace, su primo progetto dell’architetto Luigi Cagnola che disegnò e diresse i lavori per il campanile di Urgnano. L’arch del Sempion celebrò il Regno italico di Napoleone ma divenne monumento dell’Italia risorgimentale, dopo le vittorie nel 1859 dei Piemontesi di Vittorio Emanuele II a Solferino sugli Austriaci del neoimperatore Francesco Giuseppe. Dal Castello all’Arco un lungo prato, spelacchiato dalla siccità, percorre il parco tanto frequentato dai milanesi, tra alti cedri larici platani querce, che rende legittima la pretesa di Milano città verde.
La terza tappa è alla ricerca della casa di Carlo Porta, il poeta meneghino per eccellenza, inseguendo i miei ricordi del liceo. Dovrebbe trovarsi in via Manzoni come deduco da internet. Vado chiedendo, con scarso successo, del poeta e della casa non ai turisti che sono i più né agli addetti alla portineria occupati al telefono o al cellulare, ma ai milanesi rimasti, quelli fermi fuori da un negozio, con la borsa della spesa in mano, in bicicletta o col cane.
Vengo a conoscere un’altra Milano. Nei pressi della Stazione di Porta Garibaldi c’è effettivamente la vecchia entrata alla città da Como. Passo davanti alla Chiesa dell’Incoronata, così intitolata in omaggio al nuovo signore della città Francesco Sforza e scopro la particolarità della doppia facciata. Trovo Via Solferino dov’è la sede del Corriere e ci entro, senza incontrare né il direttore Fontana, né i giornalisti, che conosco da lettore veterano: che so? De Bortoli, Gaggi, Grasso, Cazzullo, o l’umorista Giannelli. Parlo con l’impiegato di carta stampata e di giornali, di difficoltà di trovare il giornale, di crisi e di edicole che spariscono. In via Manzoni passo davanti alla casa di Gadda ma non c’è segno del Porta. “Deve essere vicino a quella di Verdi”, e la signora mi indica la finestra dove è morto il musicista. “Ho partecipato ad un evento, qualche anno fa, quando avevano cosparso di paglia lo slargo, qui occupato dai tavolini del bar, come avevano fatto i milanesi all’agonia del maestro. Tanto l’avevano amato! pensavano di alleviare la sofferenza attutendo il rumore delle carrozze di passaggio”.
Oltrepasso Casa Manzoni e il Palazzo Belgioioso accanto, perché in via degli Omenomi il Porta aveva soggiornato, come mi ha assicurato il funzionario della Pinacoteca Brera quando ho fotografato nel cortile la statua del Cagnola.
Il fatto è che la Milano del Porta non è più quella di oggi. Irriconoscibile la via Montenapoleone, dove sotto gli austriaci era allestito il Monte di Pietà e il Porta vi lavorava come impiegato all’ufficio per il “debito pubblico”, tanto i milanesi si preoccupavano dei debiti. Non c’era la Galleria e si lavorava alla facciata del Duomo che non aveva la piazza di oggi in gran parte occupata da case. Le celebrazioni e le parate si tenevano davanti a Palazzo Reale. All’edificio della Scala che Porta assiduamente frequentava e dove si svolgeva la vita mondana e intellettuale della città, si era da poco aggiunto il porticato antistante. Serviva a evitare ingorghi di carrozze sulla via pubblica e ad agevolare le signore con i loro strascichi in caso di maltempo. La vena poetica si nutriva tanto della piazza del grande mercato di ortaggi e della frutta, sull’odierna via Larga, oltre Piazza Fontana. Dal tempo di San Carlo Borromeo è rimasta una colonna votiva. Erano più di trenta, dislocate in piazze e svicoli dove si svolgevano le funzioni religiose durante la peste, con la gente alle finestre o sui portoni perché si doveva evitare il contagio.
Merita un ripasso questa figura del grande poeta dimenticato a causa di una lingua in disuso. Qualche sua battuta? Su Milano e chi la critica perchè “l’aria l’è malsana, umeda, grossa” e i milanesi sarebbero “turlun” cioè ritardati: “li sciori” (i signori) che vengono e “pienten qui i benedetti vèrz”, cioè si insediano a Milano, “no i spienten pù” non vanno più via. Cosa hanno fatto i preti con Napoleone? Prima a pregare di “fagli trà l’ultem pett” (scorreggio), scongiuri per fargli tirare le quoia, “ades canten per lu, birbi, impostor!” Lo considerano un poeta dialettale da strapazzo? Ribatte: l’è me el vestii, nessun me l’ha imprestaa.
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Comune di Milano
Mangiare a Milano
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