Si direbbe un fantasy, un romanzo surreale, non alla Buñuel che dissacra e inquieta ma alla Palazzeschi che incanta e diverte. Leggero, da fiaba, un ritmo serrato, pieno di scoppiettanti invenzioni, Il Doge di Aldo Palazzeschi trasmette ottimismo.
Pare che lo scrittore giochi con il lettore, in paradossali situazioni. Si diverte e diverte. Fa saltellare parole e pensieri, è uno scoppio di invenzioni e di fantasia. Fa il pagliaccio, il funambolo, il mago che tira fuori il coniglio dal cappello. Lui stesso si dichiara folle e in una delle poesie giovanili dice: “Chi sono? Sono forse un poeta?/ No certo. Non scrive che una parola ben strana / la penna dell’anima mia: follia”.
Palazzeschi non risparmia l’ironia. Sempre pronto a denunciare la meschinità, il cattivo gusto, l’invadenza, la visione angusta, il cantuccio da cui guardano le persone. Rifiuta di lasciarsi affliggere dalle ragioni della realtà, i traumi del mondo non lo intaccano, piuttosto sono occasioni per ridere. L’ironia è sempre presente in Palazzeschi e l’età non l’ha ammorbidita. “I veneziani forse non l’hanno presa bene” dice in un’intervista. Non penso.
Il libro era nascosto dietro altri. L’ho preso in mano, mi ha interessato per la città di riferimento, Venezia. La Venezia di Palazzeschi non è quella raffinata, decadente, crepuscolare, languida, di Morte a Venezia (Thomas Mann), quella della sua giovinezza. Questa Venezia è irradiata dal sole, viva, dalle mille imbarcazioni di ogni tipo, con nuovi ospiti “che vanno a coppie, a frotte, a branchi, in gruppi fila indiana, in comitive, carovane, e dappertutto una quantità inverosimile di valigie accatastate, allineate, soprammesse, formanti architetture variopinte”. E’ la Venezia del boom economico quando lui ottantenne compose il romanzo.
La trama è esile. Il Doge ha intenzione di affacciarsi alla Loggia di Palazzo Ducale. Lo annunciano gli altoparlanti della città dislocati in ogni dove. Subito una ridda di voci si rincorrono sul perché. Saranno parole di affetto, auspici di felicità o discorso di sventure, addirittura di guerra? Le ipotesi si rincorrono e cozzano tra ottimisti e pessimisti.
Le donne si preoccupano della Dogaressa con altrettanto fantastiche colorite previsioni. Lei si sarebbe affacciata? Come sarà la forma e il colore del vestito, gli ornamenti, la capigliatura? Fanno illazioni alla vita privata del Doge “notoriamente dotato di una virilità non comune, oltre che di ingegno, coraggio e dall’insaziabile ardore sul campo”. Sarebbe riuscita lei a nascondere col suo bel sorriso le ferite del cuore?
A mezzogiorno in punto dovrà parlare. Dalle nove la gente si accalca sulla Riva degli Schiavoni, tutti vogliosi di vedere, ammirare, salutare, mostrare devozione ad un così amabile uomo nonché Capo di tanto disciplinato Stato. Finché l’orologio della piazza, coi suoi due morettini, batte i colpi, dodici per ognuno, ma lui, il Doge, così precisissimo pur alle prese con spinosissimi affari, non appare. Lentamente prima, poi sempre più veloce il tempo scorre e gli attimi diventano secoli. Inutile attesa, circola la notizia. Come mai? sarà per un momento di debolezza, un’emicrania improvvisa, una congiura di palazzo? Congetture all’infinito. Resta però certo, sicurissimo: si sarebbe affacciato il giorno dopo. Però il loggiato resta deserto, precipitando la popolazione nello sconcerto.
Quando poi, per il terzo appuntamento, tutti sono rimasti serrati in casa perché la cosa stava prendendo una brutta piega, si diffonde la voce come da messaggero celeste che qualcuno, con un potentissimo cannocchiale, avrebbe visto il Doge affacciarsi sulla piazza vuota, addirittura avrebbe captato dal movimento delle labbra una parola che fu come lo scoppio di un bubbone: rivoluzione! Così tra congetture e sconcerto fino allo sfavillante finale.
Palazzeschi (1885-1974) era nato a Firenze. Il papà che aveva un eccellente negozio di moda aveva puntato su di lui per ampliare gli affari. Inutilmente. Aldo si diede al teatro poi alla poesia dove trovò e coltivò le sue amicizie (Corazzini, Moretti, Gozzano). Fu, come amava ripetere, un autodidatta: “la mia maestra è stata la strada”, lontano da scuole e da professori di università, allergico alle forme ampollose degli scrittori di fine Ottocento (Carducci). Poeta nella prima parte della sua vita e poi romanziere con Sorelle Materassi il capolavoro: nella Firenze di fine secolo due sorelle zitelle dedite al lavoro e al risparmio fino al decadimento fisico, tutto a vantaggio del nipote fannullone e dedito alla bella vita.
Palazzeschi entrò nel gruppo dei futuristi di Marinetti. In sintonia con la nuova società, cercavano strade e linguaggi nuovi, in arte e in letteratura. In un’intervista alla domanda su che pensasse dei giovani contestatori del 68 rispondeva: “Sono d’accordo, fanno come noi; i giovani mettono in discussione gli stereotipi, demoliscono per costruire”. Interventista e pacifista ma cauto verso la politica, Palazzeschi si servì dell’ironia come denuncia sociale, a volte sarcastica e dissacrante.
Per il Doge si potrebbe parafrasare la dicitura che ricorreva nei film di una volta, “i riferimenti alla realtà italiana presente e passata sono puramente casuali”.