Mia zia che era lucida e in forze si era messa in testa di andare in una Casa di ricovero. Era rimasta offesa all’ingiunzione di sfratto da parte del proprietario. Aveva girato per la Bergamasca finché aveva trovato la Casa. Aveva lo stesso nome della mamma, morta giovane. Aveva impacchettato tutto, lasciato mobili e guardaroba alla San Vincenzo, e si era fatta portare alla Casa di ricovero, senza dipendere da amici o parenti. Tutti le davano della matta. Era rimasta sola, il fratello morto, la sorella stabilitasi in altro paese per stare col figlio.
Il marito era morto in Russia. Partito dopo pochi mesi che si era sposata. Le aveva spedito l’ultima cartolina dal Don: stava bene, faceva freddo, parlava di trasferimenti. Niente da far intendere la brutta piega che la guerra stava prendendo e soprattutto il calvario che avrebbe affrontato. Con tante altre spose o padri si era recata alla stazione di Milano ad attendere i treni che riportavano i reduci. L’aveva fatto settimanalmente, ogni volta pigliando qualche brandello di notizia sulla sorte del marito. Anche lei aveva fatto il voto alla Madonna di non toccare frutta al sabato in cambio della Grazia e mantenne quel “fioretto” anche in seguito. Si aggrappava all’idea che fosse ancora prigioniero in una parte di quella landa immensa. Il marito si chiamava Peppino.
Lo ricordo in una foto che non ho più che lo ritrae nella squadra di football – si diceva all’inglese, come altri termini calcistici – in cui c’era anche mio padre. Il fatto di giocare nella stessa squadra li aveva fatto sposare le due sorelle. Con la scusa di controllare la sorella, più giovane e ribelle, mia mamma aveva adocchiato Ercole, mio padre. Lui coi capelli lisci e un inizio di calvizie, piccoletto e tarchiato, sorridente e ottimista anche davanti al fotografo, Peppino alto, prestante, con la fascetta sulla fronte per tenere raccolti i folti capelli ricci, contenuto nello sguardo, quasi timido.
La guerra aveva colpito la zia e la ferita l’aveva segnata. Non si era risposata. Aveva vissuto sola, facendo la sarta. Non poteva passare inosservata, attenta com’era al suo corpo e al vestire. Credo che abbia sempre scoraggiato ogni tentativo di approccio. Per lo meno quelli seri, nonostante qualche infatuazione. Il suo momento di mondanità era la domenica pomeriggio quando si fermava per un paio d’ore al Caffè più rinomato del paese, poi tutta la settimana in casa, a lavorare. Nel Ricovero passò gli ultimi vent’anni, prima dandosi da fare come guardarobiera e incaricata di commissioni per le varie degenti, fossero medicinali, un paio di calze o un ghiacciolo. Pian piano rallentò gli impegni, diradò le uscite, finché non ci fu verso di tirarla fuori nemmeno per una passeggiata.
Di questo mi son ricordato oggi alla ricerca di un posto per la parente di mia moglie titolare di modica pensione. La speranza era di trovare una indicazione, una possibilità di collocarla, magari fuori Regione. “Senta – ci ha detto una suora che ci ha illuminato nel grigiore della burocrazia che si impone dovunque “purtroppo non possiamo fare niente. Anche qui viviamo con i contributi degli ospiti e con quelli dobbiamo pagare personale e il resto. Capisco la difficoltà. Le faccio l’esempio di una nostra ospite. Nella vita si è prodigata per il prossimo ma che non ha pensato di mettere da parte qualche risparmio e oggi la sua pensione minima non basta. Ci stanno pensando i parenti che si sono accollati il resto”. Il resto significa arrivare ad una retta di 2.000 euro al mese.
Non pretendo che questo sia nell’agenda del Governo circa le cose da fare con il Recovery Fund. Si parla giustamente di lavoro, di giovani, di scuola. Ma una società che si rispetti deve mettere in cantiere qualcosa per gli anziani meno fortunati.