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Interpretare il mondo contemporaneo. Intervista del 1999 al filosofo Paul Ricoeur (morto nel 2005) tradotta in esclusiva da Mauro Malighetti per socialbg.


Perché l’appuntamento a questo Café di Parigi?
E’ un luogo storico e mitico per me. Sono venuto qui 63 anni fa per la prima volta. Siamo vicini al Jardin de Luxembourg e alla casa di G. Marcel, mio professore nel 1934 quando stavo per laurearmi. Si può fare filosofia al café; perché no? Si fa filosofia a tutti i livelli, con ogni tipo di pubblico, compresi i bambini. Hanno la loro età “metafisica”, attorno ai sette otto anni, quando fanno domande sulla morte, sulla nascita, donde sono venuti dove andranno.

Come definirebbe il filosofo? Un detective in cerca degli assassini del pensiero, un poeta, un creatore di fiction, un capopopolo o semplicemente un pedagogo?
Lo vedo come uno che trasmette testi importanti attorno ai quali nascono domande. Aggiungerei: uno che sta a contatto con le scienze. Lo sono stati Platone, Cartesio, Bergson che dialogava con la biologia. Negli ultimi 30 anni abbiamo assistito ad un cambiamento, il declino della figura pubblica del filosofo, l’ultimo è stato Sartre. Il lavoro del filosofo si è fatto più modesto, si affianca alle varie ricerche.  Ho amici che indagano sulla pornografia e si domandano fin dove può giungere la libertà di espressione o come proteggere la gioventù. Il filosofo è colui che aiuta ad argomentare.

Sulla questione del senso, il mondo ha forse perso il senso del vivere, i giovani soprattutto?
Non si tratta solo di leggere testi, bisogna imparare a leggere la propria eredità culturale. Oggi più che di vuoto culturale parlerei di sovrappiù che non è riesaminato. Una vita non riesaminata rischia di non essere vissuta. Riesaminando i nostri retaggi capiamo che ci sono state promesse non mantenute, sensi che non si sono realizzati, conti che non si sono pagati. Abbiamo le eredità greco-latine, giudaico-cristiane, medievali, dell’epoca moderna, illuministe, possibilità cariche di senso da riesaminare e rivitalizzare. Si tratta ancora di una pienezza inaccessibile, vista come attraverso un vetro.

In che consiste la crisi di cui si parla?
L’umanità ha sempre avuto momenti di crisi. Non siamo animali programmati geneticamente, noi inventiamo il nostro comportamento e le regole che lo governano. C’è una crisi istituzionale oggi. Avevamo in passato stabilità nelle istituzioni inerenti alla vita economica e di lavoro, nelle istituzioni religiose, in quelle sociali che formavano legami tra gli uomini. Oggi la crisi investe la credibilità delle loro autorità. L’autorità si regge su un paradosso: autorità è qualcosa che ci supera e insieme noi la accettiamo come superiore. La crisi oggi è nella credibilità.

Crisi della fiducia?
Sì, alla base sta la stessa fiducia che attribuiamo alla parola di un altro. Quando la parola circola in una cerchia ugualitaria, questa parola si corregge automaticamente. Se invece la parola viene dall’alto, da chi domina e guida, tale parola può vacillare se vacilla il legame gerarchico.

Qual è la soluzione?
Non parlerei di soluzione, ogni soluzione pone nuovi problemi. Lo vediamo a proposito di certe tematiche come quella della divisione o riduzione del lavoro. Parlerei di indagini più che di soluzioni. Le soluzioni fanno parte della crisi.

Per la democrazia come si pone la crisi?
Sta nel rapporto elettore-eletto. Oggi in Europa non ci riconosciamo in chi ci rappresenta.

Cosa può dire di specifico la filosofia?
La crisi parte dalla rappresentanza di noi stessi, e noi non ci stimiamo. Per me è importante la stima di sé, che è più del rispetto. Il rispetto nasce dal ragionamento, la stima di sé è un’approvazione del proprio esistere e di essere protagonisti della nostra storia. Oggi è in questione questo: non ci sentiamo sicuri di essere attori della nostra storia, piuttosto la subiamo.

Oggi si parla di giustizia ingiusta?
La parola giustizia indica insieme virtù e istituzione, e non sempre coincidono. Sentiamo oggi un forte senso di giustizia che consiste nel trattare ugualmente casi simili. Di fatto nessuna istituzione è adeguata.

Giusta è la società in grado di dirimere le ingiustizie.
La giustizia sta appena un gradino sopra i nostri conflitti. Si parla di “un arbitro terzo”, che non è Dio, né un angelo o un demonio, è un uomo che noi abbiamo messo lì, seguendo certi stratagemmi. A lui riconosciamo il diritto di decidere. Non si tratta tanto di punire o far soffrire ma di dirimere il diritto, dichiarare il colpevole e la vittima. Ma deve essere forte e credibile. A noi resta l’indignazione, ma l’indignazione ha un limite, è troppo vicina alla vendetta. La giustizia allora cerca di bilanciare. La giustizia fa da arbitrato nei conflitti, che rischiano sempre di degenerare.

Riguardo alla giustizia sociale non dipendiamo troppo dalla logica di mercato?
Sì. La mia è una definizione semplice di giustizia. La giustizia è facile applicarla per i casi simili. E se i casi non sono simili? Pensiamo ai beni materiali che sono distribuiti oppure alle varie possibilità di comandare. Ci sono ovunque gerarchie, nell’insegnamento come nell’impresa. Non siamo tutti ricchi o tutti poveri alla stessa maniera. Anzi! Una società ugualitaria sarebbe una società violenta perché esigerebbe un’autorità pronta a tagliare le teste che emergono.

Come interpretare la propria vita, il proprio tempo?
Raccontando. Mi sono interessato al racconto come genere letterario: biografia, autobiografia, dialogo, confessione, conversazione ordinaria. Quando raccontiamo qualche fatto nuovo o chiediamo a uno “da dove vieni, chi sei?” raccontiamo e ascoltiamo continuamente storie. L’interpretazione viene dal racconto. Raccontare non significa spargere degli eventi qua e là, si tratta di seguire un filo, la trama, è una messa in intrigo, e spesso gli stessi fatti si raccontano diversamente. I ricordi ci aiutano a legarli; per questo è necessaria la memoria; senza memoria non ci si sposta tra i ricordi. Raccontiamo esprimendoci nella lingua comune, la lingua parlata. I racconti ci legano e poi circolano. Alcuni sono più di un patrimonio personale, diventano patrimonio comune e fondano la nostra identità collettiva.

Quello che sta dicendo può aiutare a capire quanto sta avvenendo in Bosnia?
Lì è più difficile, si tratta di un garbuglio di storie collettive. Ciò che per gli uni può essere motivo di onore per gli altri è dolore. Una guerra persa è vittoria dell’altro, non si può fare lo stesso racconto, c’è il racconto della vittima e quello del vincitore. Non c’è un unico punto di vista. Noi siamo obbligati ad ascoltarli tutti. Si pone il problema politico della mediazione, qualcuno con l’occhio imparziale che vede un lato per volta. Quello che dovrebbero fare le istituzioni internazionali, con il rischio di un intervento che brutalizza la memoria. Ci sono tante storie e per lo più prevalgono quelle dei vincitori. Noi dobbiamo riscriverle, tenendo presente il punto di vista delle vittime. Non si può dimenticare lo sterminio degli ebrei. Si parla di dovere della memoria in quanto la memoria va consegnata alle generazioni future. Non si può dimenticare: “tu continuerai a raccontare!”. Ciò che mi è stato trasmesso lo devo trasmettere a mia volta, come un pilastro per il domani. Ce lo dice la parola torah: è l’insegnamento, l’insegnamento per vivere meglio ed evitare che gli eventi si ripetano. Sta nella derivazione latina di monumento (monère), qualcosa che ricorda e serve da avvertimento perché sia possibile un futuro più pacifico.

Come capire il futuro? Gli antichi consultavano gli dei oggi abbiamo gli specialisti della probabilità.
Da una parte si parla di utopia dall’altra di previsioni, e c’è un bell’intervallo in mezzo. Gli economisti ci abituano alle previsioni, parlano di gradi di probabilità, secondo una prospettiva a corto medio lungo raggio. E’ buona cosa sapere a quale lunghezza ci riferiamo. Il politico è costretto a guardare al piccolo raggio, per lui è questione di sopravvivenza, guarda alla rielezione e questo è un terribile handicap. Credo che la gente deve guardare più in là dei politici.

I movimenti religiosi integralisti fanno grandi promesse ingenerando fanatismi.
Non si tratta di capacità di guardare o progettare l’avvenire, è solo esercizio di presa sugli animi, captano la credibilità della gente. Io credo nella libertà religiosa e il mio criterio di guardare ad una religione è: la mia religione mi dà la possibilità di adottarne un’altra? Se la mia religione mi permette ciò non è più una setta.

E la morte?
Non mi resta molto da vivere. Non ho grandi progetti. Sto pensando al prossimo libro e potrebbe essere l’ultimo. Non so oggi la pagina che scriverò domani. Non mi preoccupo della fine, mi interessa essere vivo agente pensante. Vorrei affidare ai discendenti parte della mia memoria, lasciare in eredità ciò su cui ho lavorato, compreso il parricidio. La morte arriverà in modo diverso da come avevamo previsto. Diceva Sartre: la morte è sempre un incidente, si muore sia perché troppo giovani o perché troppo vecchi, mai al momento opportuno. La morte resta semplicemente l’assurdo. Io penso alla vita. Amerei che di me ci si ricordi come di un tipo gaio nonostante a volte la severità del professore.
(Traduzione di Mauro Malighetti)


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