Libertà e responsabilità. L’essere e il nulla di J.J. Sartre. Lezione Maria Russo
L’opera uscì nel 1943, in piena guerra mentre Sartre era prigioniero. Ebbe risonanza più tardi e divenne moda, Sartre campione dell’esistenzialismo. Lui era rimasto folgorato alla lettura di Essere e tempo di Heidegger. Lo interpretò, fraintendendolo, in chiave umanistica: il Dasein non è la verità dell’essere ma è discorso sull’uomo. Gli rispose Heidegger con la sua Lettera sull’umanesimo e rimise le cose a posto.
L’essere e il nulla, Il nulla che non è dato prima o dopo l’essere ma che è nel suo cuore “come un verme”. L’uomo porta il nulla, perché il nulla, che è mancanza d’essere, viene al mondo con l’uomo. L’uomo venendo al mondo, all’essere, avverte la mancanza. L’uomo non è tutto sé stesso. L’uomo è essere in trasformazione, sempre modificante sé e il mondo, esistenza non essenza. Come? Con la libertà. La libertà è modo di essere a distanza dal mondo e da sé. L’uomo non è ridotto ad un oggetto del mondo, né è catena di cause. Non conta su un’identità stabile. E’ libertà.
Perché la libertà sia possibile occorre spezzare la catena del tempo che lega il presente al passato e che impedisce di agire diversamente dal passato. Occorre rivendicare la possibilità di essere al di là di ciò che è avvenuto, indipendentemente dalle decisioni prese, mie e degli altri. E’ possibilità di inventarsi e inventare. Dopo aver scoperto “la nausea”, la vita senza senso, Sartre scopre l’angoscia. L’angoscia però non è una disposizione affettiva o patologia da curare. Si tratta dell’incertezza della condizione umana. Mi angoscio perché i miei comportamenti non sono più possibili, i motivi non fanno quel che promettono e tutto è a mio carico. Al presente non sono più quel che ero e nemmeno ciò che sarò. Come il giocatore di Dostoevskij: la scelta fatta ieri di non giocare non lo protegge oggi dal giocare ancora, non è definitiva. Non si può decidere una volta per tutte ciò che si è. Nella vita di ogni giorno ciò che si progetta è sempre ridotto a rango di possibilità.
Sartre parla di coscienza in malafede. L’uomo si sente a disagio, vuol fuggire dall’angoscia, non vuole portare il peso della libertà, e si nasconde. Si nasconde nelle pieghe degli altri, dietro i valori, le ragioni precostituite del soggetto borghese che rinuncia alla libertà e si adegua. Invece è la libertà che fonda i valori. I valori del mondo borghese sono falsi cartelli di senso, argini futili contro l’angoscia e vanno contro la consapevolezza della nostra libertà. Le ragioni della mia giustificazione non risiedono fuori di me. Io sono ingiustificabile, niente mi giustifica, nemmeno il sacrificio come predica la religione cristiana. Sta a me creare i valori. L’angoscia di cui parla Sartre si può definire angoscia etica. Malafede è credere nella favola rasserenante dell’essenza, del ruolo definito una volta per tutte. Si cerca di ricoprire un ruolo stabilito, come il cameriere che gioca a fare il cameriere, con la faccia la voce i gesti, troppo studiato, troppo vivace per essere vero.
Lungi dall’accettare la propria condizione esistenziale, l’uomo in malafede recita il proprio personaggio per esistere e non essere. L’uomo non è condannato a questa condotta e deve accettare la propria libertà, e accettarne il peso. E’ il vivere per sé. La tendenza è pietrificarsi in ciò che è stato, solidificare l’esistenza in essenza, prorogare il passato fino alla fine, fino alla pietrificazione della morte, libertà pietrificata. L’uomo deve invece scappare dal suo passato verso un futuro sentito come progetto, niente di assicurato o determinato, tutto progettato. Il soggetto è in movimento, come una fotografia sfocata. Il senso dell’esistenza viene dopo. Posso tornare indietro per andare avanti, per chiarire e modificare ma il movimento è condotto sul futuro. Il futuro è incerto, fragile, come poteva esserlo per chi viveva come Sartre rinchiuso in un campo di prigionia. Ma il futuro è un campo di possibili. E’ ciò che ha da essere ma può non essere, perché posso diventare altro dal mio progetto.
Con l’io c’è l’altro. Ci sono gli altri e io sono l’altro per loro. L’altro può impedire, negare la mia espressione; sono il suo oggetto, lui mi inchioda ad un’essenza. Ce ne accorgiamo quando facciamo qualcosa di ridicolo. L’altro scruta, mi giudica, mi descrive in modo in cui io non mi riconosco. Io provo vergogna. Mi sento spiato. Così mi rassegno, mi convinco e mi riconosco in quel che gli altri dicono di me. E’ libertà incatenata.
Il modo di esistere è agire, nel fare percepiamo la situazione e aggiustiamo il nostro progetto di cambiamento. La libertà coinvolge tutto di noi, la ragione e le emozioni, volizioni e passioni, ogni atto e atteggiamento. Anche nelle situazioni difficili. Si dice che si è trascinati dalla rabbia, non che scegliamo di arrabbiarci. Il condannato è libero? Comunque avrebbe potuto essere diverso. Il coefficiente delle avversità delle cose non è argomento contro la libertà. Abbiamo creato noi quel coefficiente, è nato in noi e con noi. Anche le situazioni limite riducono le possibilità ma non le escludono. Una roccia è un muro e se voglio spostarla offre una resistenza enorme, ma se l’affronto da rocciatore mi può offrire un paesaggio meraviglioso. Resistenze e ostacoli dipendono dai progetti.
Perché una libertà così radicale? Qual è lo scopo di Sartre? Gli sta a cuore la responsabilità morale. Noi siamo responsabili di noi e del mondo. L’uomo è senza scusa. Sartre non è determinista come Freud. Freud parla di complessi, di vissuti nell’infanzia, di inconscio, di lapsus. L’uomo di Sartre è spinto dal progetto all’azione, a scelte concrete che sono sempre scelte morali perché libere. Il dovere è la libertà.
Con i problemi che oggi dobbiamo affrontare abbiamo bisogno di sentirci ancora figli di Sartre, di lui che parla di libertà e responsabilità. Perciò l’opportunità di rileggerlo.
Bergamo Liceo Mascheroni, 30 gennaio 2024