Le verità sono ai margini perché riguardano storie di persone soccombenti, ignorate o dimenticate. Ai margini perché il potere o la cultura dominante le ha emarginate e a noi arriva un’eco, il canto “di chi vinto non si rassegna, e insiste, sperando che qualcuno lo senta” (M. Zambrano). A noi la responsabilità di udirlo.
Ben caratterizza la situazione Bell Hooks, pseudonimo della scrittrice afroamericana Gloria Watkins nel libro autobiografico Elogio del margine dove racconta della sua città divisa dalla ferrovia, di qua bianchi benestanti di là gente di colore arrangiata in case fatiscenti. Due mondi incomunicabili che lei ha potuto mettere a confronto dovendo per necessità recarsi a lavorare dall’altra parte. Ha capito che ciò che sembrava naturale non lo era.
Le verità ai margini ci parlano di differenze che richiedono un particolare sguardo. Ci può aiutare un nutrito gruppo di donne scrittrici e filosofe, che vi hanno riflettuto. Lo sguardo richiede un certo atteggiamento, anzitutto la consapevolezza della nostra vulnerabilità. Scoperta la nostra capiamo quella degli altri. Ai margini ma spinti dal risentimento vorremmo occupare il centro, magari spingendo altri ai margini. La mappa resta la stessa. Come quella di Colombo dove aggiungeva punti oltre gli altri già segnati, sempre più in là, ma lo schema restava uguale. Poi si accorse del Nuovo Mondo, e la mappa andava cambiata. Come per la città di Bell Hooks non si trattava di spostare i binari.
Il margine è occasione di trasformazione. Ossessionati dal voler controllare tutto non accettiamo la nostra fragilità. Eppure da soggetti feriti cerchiamo aiuto e ci apriamo. Per prima cosa con più attenzione. Ce l’ha insegnato la pandemia, ce lo insegna il momento terribile della guerra in corso. Bisogna superare l’illusione di gestire e controllare tutto. “Tutto – scrive in una sua poesia Wislawa Szymborska – è una parola sfrontata e gonfia di boria. Andrebbe scritta tra virgolette. Finge di non tralasciare nulla, di concentrare, includere, contenere e avere. Invece è soltanto un brandello di bufera”.
Fa paura la parola “provvisorietà”, dà la sensazione di instabilità; invece favorisce il passaggio, spezza lo schema rigido. Non è indifferente al vero, ma è contro la sua definitività. Non è alibi per non fare ma obbliga alla responsabilità. Ci insegna a fare domande, a misurarci con l’incarnazione. Merleau-Ponty diceva che bisognava sempre misurarsi con le domande dove sono? che ora è?
La verità ai margini ci insegna che non è fatta solo di logos ma anche di emozioni (Scheler), muove dal desiderio e ha bisogno della cura. L’amore scommette su ciò che non c’è ancora. E’ capace di revisione, un modo di far memoria non risentito né nostalgico. La Zambrano davanti alle rovine dei Fori imperiali scriveva: “ … posso vedere ciò che una volta era splendido e ora non c’è più. Mi sento triste. Poi vedendo i ciuffi d’erba tra le pietre avverto il canto di ciò che non si rassegna”.
Una parola ci illumina, serendipità, che vuol dire trovare casualmente qualcosa di importante. Ma bisogna essere recettivi. Per ben viaggiare bisogna essere xenofili, amanti del diverso, spingersi al margine, accettare le deviazioni. La verità non si afferra come un oggetto, non si brandisce. Bisogna farle spazio. Neppure è un sogno solitario, richiede la collaborazione degli altri.
Anche il sacro è parola da scongelare. Ha diverse forme. Chiede un andare e venire con gli altri. S.Agostino diceva di non smettere mai di pregare il Padre Nostro. “Con tanta miseria attorno?” gli dicevano. “Appunto, finché sarà vero!” La verità non è conversione dell’altro ma cammino comune, solidarietà della vita. Alla fine salta fuori. In ebraico verità è emet (amen), che vuol dire roccia, punto fermo, stabilità.
(Sintesi della lezione di Lucia Vantini a dal titolo Verità ai margini: vulnerabilità, fragilità e pensieri differenti nell’ambito di Noesis all’Auditorium Mascheroni del 22 novembre 2022)