I toponimi con desinenze in -ate sono di derivazione longobarda. Me l’ha spiegato “lui” il nostro cicerone, con tante altre notizie. Proviene dal Polesine. Chi viene da fuori apprezza meglio i tesori del luogo. Aveva un anno e mezzo quando il Po allagò la sua regione, nel novembre del 1951.
La sua famiglia dovette sloggiare, la casa sommersa di due metri. Ritornarono dopo qualche settimana e dovettero ripartire da zero. Quando lui si affacciò sul mondo del lavoro emigrò perché non c’era lavoro. L’azienda di Milano lo mandò in giro per il mondo. Si accasò a Olginate e ora si gode la pensione con la passione per la storia. L’ho incontrato perché sul rondò di Valgreghentino ho deviato incuriosito dal grumo di case vecchie che vedevo dalla strada vicino al ponte della ferrovia. Mi domandavo cos’era la protuberanza in forma di abside che fa pensare ad una chiesa romanica.
Capiate, frazione di Olginate (Lecco), fu abitata da famiglie contadine fino agli anni ’80. Sono rimasti i fili intrecciati della corrente, i primi interruttori in plastica, l’intonaco che cade a pezzi tra paurose crepe, le mattonelle rosse delle stanze da letto, le scale ripide, e nel cortile l’acciottolato con entrate su pietre smussate dall’usura, il lavatoio, il pollaio con i pannelli in lamiera, la pietra di serizzo ad uso di panchina, le scure verdi, la latrina con la finestrella.
Con lui ho familiarizzato con cavalli e asini, pronti a ricevere la consueta carota, ognuno con proprio nome. C’è il cavallo sardo, da poco arrivato, alto, il collo sporgente dalle antine. E’ stato preso e salvato da ignominiosa fine dopo una lunga carriera lavorativa. Scuote la criniera felice.
La storia di Capiate comincia con un pezzo di iscrizione romana del primo impero. E’ la dedica di un personaggio di riguardo, dichiarato pontifex, il cui nome è rimasto sulla parte mancante. Fu utilizzata come pietra muraria. Questa zona che guarda la Val San Martino, produttiva da sempre, così esposta al sole, era probabilmente atta alla coltivazione della vite e dell’ulivo. Fu pure campo di battaglia nel disordine del tardo Impero, quando si avvicendarono romani e barbari, bizantini e predoni che venivano da Nord. Bisognava scappare o fortificarsi come successe qui a Capiate che divenne castro, quadrato fortificato, dai muri spessi, fatti di materiale composito, a volte pietroni tolti da ville o monumenti vicini, che hanno strani incavi e fori, secondo gli esperti sedi per chiavistelli, battenti di portoni, campioni di misure. Ci sarebbe anche un’ara per i sacrifici, stando alla forma trapezoidale dagli spigoli smussati.
Entriamo in quella che era la basilica di S. Nazario dietro un bel gatto d’Agora come il padrone di casa lì a controllare. La chiesa era orientata, secondo l’usanza dell’alto Medioevo, verso il sole nascente, simbolo divino, come la stella dei Magi. Bisogna guardare dove si mettono i piedi. Gli archeologi hanno rivoltato i pavimenti scavando dov’erano le stanze o le cucine, facendo affiorare tombe, in totale 43, sagomate sulla forma del corpo umano, alcune di bambino, tutte allineate verso est. L’usanza era di seppellire i morti in chiesa o nelle immediate vicinanze fin quando arrivarono le disposizioni napoleoniche e anche le famiglie nobili dovettero rassegnarsi a seppellire i propri morti in uno spazio più anonimo fuori paese.
Da Milano arrivarono nell’Alto Medioevo i monaci di Sant’Ambrogio che portarono la loro devozione al martire milanese Nazario morto nella persecuzione di Diocleziano. I monaci si stabilirono nel lato della torre. Vissero qui per alcuni secoli, confermati da imperatori e vescovi nel possesso della Corte di Capiate che aveva importanza strategica ed economica per Milano. Poi se ne andarono e la proprietà del monastero passò a diverse famiglie di lustro, fino al proprietario di oggi che ha l’intenzione di rilanciarla in una modalità tra l’agriturismo e il centro culturale.
Uscendo mia moglie si preoccupa del gatto, “non resterà chiuso dentro?” Lo ritroviamo tra i rami di un albero ormai spoglio vicino al lavatoio, in bella evidenza, che spostandosi a scatti simula agguati, o forse fa parte del suo percorso ginnico quotidiano.
Nel tornare alla macchina gli asini accorrono con il medesimo entusiasmo di prima ma dovranno accontentarsi del fieno. Noi ringraziamo colui che ha arricchito la nostra visita. Si chiama Lino come il primo papa.
Link utili:
Comune di Lecco
Mangiare a Olginate
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