“Cosa vuoi che cambi? E’ solo un numero!”. E’ ciò che si sente dire da molti sostenitori del “Si riformista” o del “Si per dare un segnale”. Niente di nuovo. Lo abbiamo sentito non solo in queste settimane. È qualcosa ritornato spesso in questi anni da quando si è messo mano a norme e regole in materia di rappresentanza. Cosa vuoi che cambi se si riducono i consiglieri comunali e provinciali, se proviamo a cancellare i piccoli Comuni o se aboliamo le circoscrizioni? Cosa vuoi che cambi se modifichiamo e cancelliamo il finanziamento ai partiti? Cosa vuoi che cambi se stravolgiamo le elezioni provinciali trasformandole quasi in società per azioni dove un consigliere può valere cinquanta volte meno di un altro e con il voto ponderato può anche succedere, com’è successo, che la minoranza dei voti viene trasformata in maggioranza dei voti ponderati? Cosa vuoi che cambi se alla fine le campagne elettorali si fanno sempre di più con risorse proprie o dei privati.
“Cosa vuoi che cambi? L’importante sono i servizi, l’importante sono le cose che si fanno, l’importante sono le risorse”. Aggiungevano subito dopo. Vero, ciò che conta è la vita concreta delle persone. Ma siamo così sicuri che le due cose non siano collegate? Pensiamoci. Dopo aver ridotto la rappresentanza, hanno progressivamente ridotto i servizi, la possibilità di fare cose buone per il territorio, e le risorse non sono mai aumentate, anzi. Perché tutto si tiene, la questione sociale con la questione democratica. Gli spazi di partecipazione sono diminuiti, ad ogni livello, e tante persone hanno lasciato l’impegno in un partito a favore di quello sociale, non certo per incapacità di fare politica, ma perché servivano troppe energie per poter affermare un punto di vista diverso rispetto a chi, in partenza, aveva più risorse economiche oppure era più fedele al capo. Molte di queste persone, ad esempio, oggi sono impegnate per la sostenibilità e per un nuovo modello di sviluppo, mentre nei partiti questa cultura stenta ancora ad affermarsi. Sarà un caso?
Certo, non era tutto oro ciò che c’era prima, ma è come se l’unica risposta che la politica ha saputo dare sia stata quella di ridimensionarsi, di tagliarsi, immaginando che questo bastasse per recuperare il rapporto col popolo, incapace di appassionare nuovamente con idee e progetti per il futuro. Anziché nutrire la propria pianta con acqua fresca, la politica ha continuato a tagliarla, fino a farla seccare. Ma il solco con la società si è allargato e l’antipolitica si è fatta partito. Così pure l’efficienza delle istituzioni non è certo migliorata e l’inesperienza è diventata virtù su cui scegliere i gruppi dirigenti.
In conclusione, ci sono forti ragioni anti-politiche a favore del “SI”, che di fatto sono il significato vero di questo referendum. Su queste c’è poco da discutere. C’è chi le sostiene e chi le combatte. Ma ci sono anche ragioni “real-politiche”, giustificate con la “stabilizzazione del quadro politico” o giocate su toni che tendono a non drammatizzare la scelta referendaria, della serie, “diamo un segnale”. Pensiamoci bene. Qual’ il segnale che vogliamo dare? E cosa vogliamo che cambi? Se la risposta che diamo va ben oltre ciò che ci stanno proponendo, allora è proprio il caso di votare “NO”, e di impegnarsi in prima persona per questo cambiamento.